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Cultura

Smart working e Dad, il cambiamento che promette di cambiarci la vita

Servono però nuove regole e strumenti perché questa straordinaria opportunità sia tale e non un mero riprodursi in forma digitale del lavoro o della didattica in presenza

L'emergenza sanitaria in atto, che sta attanagliando le nostre vite da mesi, ha imposto una consapevolezza nuova ad aziende, lavoratori, luoghi deputati all'istruzione: il lavoro agile, il cosiddetto "smart working" riguarda ormai in Italia milioni di persone e non più una minoranza. Ma servono nuove regole e strumenti perché questa straordinaria opportunità sia tale e non un mero riprodursi in forma digitale del lavoro in presenza, stesso discorso vale anche per la didattica a distanza. Ogni rivoluzione che si rispetti infatti deve offrire soluzioni innovative e inesplorate a problemi pregressi e questo deve partire da un cambio di approccio e di mentalità. Non può esistere cambiamento se non c'è una consapevolezza culturale di esso e non una mera, passiva riproduzione di pratiche.

Circa quindici/ venti anni di evangelizzazione informatica del mondo del lavoro hanno prodotto poco in termini di lavoro agile. Alcune aziende, soprattutto quelle capaci di avere una visione sul lungo periodo, avevano già avviato progetti di smart working, e li hanno realizzati. Attorno ad esse, però, il vuoto. Nel 2017 la politica ha pure partorito una legge ad hoc. Un buon quadro normativo che comunque lascia che a definire le modalità e i dettagli - aspetti molto importanti - sia la contrattazione individuale o sindacale, a seconda della dimensione dell'azienda. E qui non si è fatta molta strada. La sensazione è che il lavoro smart sia stato finora vissuto come un fatto laterale, quasi di nicchia. Non certo un'opportunità da cogliere al volo, per scoprire magari che può darci dei  benefici. Lo tsunami dell'emergenza Covid ha cambiato la nostra vita,  assestando uno scossone anche al mondo del lavoro. Non c'è stato il tempo per accendere dibattiti, confronti e scontri nelle consuete sedi politiche. L'unica possibilità per continuare a lavorare, stante la quarantena e il rischio di contagio, in moltissimi casi è lavorare da casa, attrezzandosi al meglio. Una cura shock che  ha destabilizzato, ma che sta gradualmente aprendo una consapevolezza diffusa: lo smart working - per lavoratori compatibili, naturalmente - si può fare. La sua platea può allargarsi senza provocare scompensi, anzi. E gli esempi virtuosi timidamente si fanno vedere. Se non si esaurirà presto, questa spinta al cambiamento potrebbe rivoluzionare anche i futuri rapporti di lavoro e persino le grandi città e agire finanche in ottica green, diminuendo gli spostamenti. Quel che è certo è che questa nuova modalità di lavorare andrà ripensata anche dal punto di vista contrattuale. Il cambiamento è stato violento. Ha avuto un suo picco (e ci siamo ancora) e fisiologicamente avrà una sua discesa alla fine dell'emergenza. Si è passati dai 570 mila in lavoro agile prima della pandemia Covid (stime del Politecnico di Milano), agli 8 milioni con il lockdown. Il tutto nel giro di appena qualche settimana. Ma ci sono altri dati interessanti, come quelli di una ricerca della Cgil-Fondazione Di Vittorio: c'è un 94% che si trova d'accordo sul fatto che lo smart working fa risparmiare tempo, che consente più flessibilità, che dà la possibilità di lavorare efficacemente per obiettivi e, non ultimo, permette di bilanciare meglio tempi di lavoro e tempo libero. Ma c'è un 71% che lavorando a casa lamenta di avere meno occasioni di confronto e di scambio con i colleghi.

Questo è il nodo: si tratta di andare verso il nuovo dando al dipendente la possibilità di scegliere e di farlo con i dovuti strumenti. Un'opportunità che si può cogliere, oppure no. Ridurre le distanze, dialogare, socializzare è importante per l'equilibrio psichico, per stimolare la creatività e produrre idee anche sul lavoro; sarà possibile ricreare a distanza quell'humus creativo e quelle fondamentali pratiche di brainstorming, del lavorare insieme concependo vere e proprie comunità di pratiche virtuose così indispensabili in alcuni settori? Come sarà possibile far interagire in maniera produttiva le persone e creare rapporti sinergici ed empatici a distanza? Sono domande che il mondo del lavoro, la comunità intellettuale, le parti politiche e sindacali sono tenuti a porsi per costruire un futuro percorribile.

Al momento mancano non pochi tasselli. Uno di questi è senz'altro una normativa al passo che non si affanni a inseguire i cambiamenti ma sia in grado una volta tanto di anticiparli. Ovvero: regole chiare per i lavoratori e per le aziende, che portino a contratti dove si dettaglia ogni aspetto di questa nuova modalità: dagli strumenti alla sicurezza (cyber security) delle connessioni al rispetto per la privacy, dagli obblighi alle garanzie, dalla reperibilità al diritto alla disconnessione, evitando tra l'altro che il lavoro da remoto si trasformi in una prigione. Una sfida che molte aziende soprattutto dell'high tech  hanno già raccolto, perché più preparate nella propria fisionomia, ma la vera sfida sarà il modo in cui le piccole-medie imprese dei più svariati ambiti riusciranno a riconvertirsi, lì dove possibile, efficacemente a queste nuove pratiche senza disperdere professionalità ed esperienza.

Quanto ci resterà alla fine dell'emergenza di tutto quello che l'epidemia ha imposto al mondo del lavoro? Servirà del tempo per capirlo ma sembra difficile immaginare che il mondo del lavoro possa richiudersi nel suo passato con la stessa velocità con cui è stato costretto ad aprirsi al nuovo e sconosciuto e certamente urge una riflessione collettiva in ambito di nuovi diritti individuali legati ad un'inedita realtà che sempre più permea di sé le nostre vite: il digitale. In fondo, questa inattesa rivoluzione è appena cominciata e ogni crisi è portatrice di nuove possibilità, ma è necessario saperle intercettare e valorizzare. “Il cambiamento tecnologico è anche cambiamento organizzativo e di mentalità e le tecnologie digitali applicate al lavoro o alla didattica a distanza riconfigurano il processo stesso di costruzione della conoscenza, ma creano una grande opportunità di connessione in rete dei saperi, delle informazioni, delle pratiche procedurali, che per i contesti aziendali, ma anche per gli istituti di formazione, può essere una grande opportunità verso un sapere e pratiche condivise che non siano altro da un cumulo di informazioni". Così si è espresso in merito Andrea Pitasi, scrittore, analista e professore associato di Sociologia Giuridica, della Devianza e del Mutamento Globale dell'Università Gabriele D'Annunzio di Chieti, Presidente della World Complexity Science Academy.

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