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Web novel, Jesus Capitolo 1

"Jesus" è una "Web Novel" che prende spunto dalle pubblicazioni editoriali del secolo scorso, quando gli scrittori pubblicavano i loro racconti sui quotidiani dell'epoca. Ogni mese, Napolitoday pubblicherà un nuovo capitolo di questa storia."Jesus" è una finestra su di una realtà dimenticata da tutti, quella del rione Traiano

Era un’estate maledettamente calda quella del 1987. Le strade di via Dell’Epomeo, “la via dello shopping” del quartiere Soccavo, a Napoli, erano ancora ornate degli addobbi azzurri che festeggiavano il primo storico scudetto del Napoli. In tutta la città si respirava un clima di festa e, ogni napoletano, tifoso e non, era innamorato del nuovo “Dio del calcio”: Diego Armando Maradona.  

Soccavo non era da meno. Il quartiere era pervaso da una voglia nuova, quasi di rivalsa. Nei confronti del Nord, certamente, con il mondo del pallone a fare da guida verso una riconquista dei diritti che, in realtà, non avrebbe mai visto la luce; ma anche nei confronti della vita vera e propria. Nulla più di una leggenda, da queste parti.  

Nel 1987 Soccavo era questo: un quartiere che, con i suoi vicoli, i suoi colori grigi, perennemente ammantati dal fumo dei tubi di scappamento delle auto, vuole urlare al resto del mondo di avere un cuore vivo e pulsante. Ma che, al momento dell’appello, si accorge di non avere più battito e di ripetere con militare cadenza tutti i percorsi usurati delle più squallide periferie.  

E qui, via Dell’Epomeo, con i suoi negozi, il suo via vai di persone, non è altro che il gioco delle tre carte che ti tira in mezzo. Una volta carpito l’interesse, ricompare l’anima più pura ed esemplificante del quartiere: il rione Traiano.  

“Quartiere di frontiera!”, “zona off limits” e, per usare uno dei termini più politicamente corretti, “periferia degradata”. Con questi appellativi, i giornali, titolavano gli articoli che vedevano il rione consapevole, volgare e sfrontato protagonista.  

“Tempio della droga”, invece, era l’appellativo che utilizzavano i cronisti più audaci che, studiando le carte degli inquirenti, venivano chiamati con monotona ricorrenza per le strade del quartiere. 

Questo perché, chiaramente, sul campo verde dello Stadio San Paolo, non molto distante, Dio era Maradona. Sull’asfalto lacerato dai fossi dell’incuria e del disinteresse delle amministrazioni che, negli anni, s’erano avvicendate, Dio era uno solo: Emanuele Falco.  

Il boss. Il padrone di una landa già morta e attaccata a un polmone artificiale fatto da polveri chimiche. Perché Emanuele Falco, in pochi anni, aveva saputo trasformare un quartiere degradato in una “Mecca” della droga. Gli scugnizzielli del quartiere avevano trovato nelle tante piazze di spaccio luoghi sicuri in cui riuscire a racimolare qualche lira per comprare le sigarette e abiti firmati. Una possibilità che, senza ombra di dubbio, le scuole del rione non avrebbero mai potuto garantire.  

Emanuele Falco questo era.  Questo aveva ottenuto dal gregge umano di pecore stupide cui si era circondato e che ora spadroneggiava per i vicoli, quasi come se i belati avessero acquisito il potere di risuonare come il ruggito di un leone. Era visto e rispettato come un Dio o più. Perché in Dio puoi anche non credere, ma solo gli infami non credono alla parola di Don Emanuele.  

E quell’estate del 1987, per Don Emanuele, non sarà mai dimenticata. Le guerre fatte con i clan precedenti erano ormai divenute storia antica da ricordare in bianco e nero. Il Napoli, cui era grande tifoso, s’era appena cucito il primo tricolore sulla maglia. Un grosso carico di cocaina purissima stava per arrivare in una delle sue tante “fabbriche dello zucchero” nascoste qua e là all’interno del rione. E stava per diventare padre. La moglie del boss, infatti, era in pieno travaglio presso Villa Dora, la clinica del quartiere.  

Il boss non avrebbe potuto essere più gioioso di com'era. A lungo, infatti, aveva desiderato che la moglie, che soffriva di fibromi uterini, rimanesse incinta. Un paio di tentativi erano già falliti ma, questa, era la volta buona. La gravidanza era giunta al termine e il gran giorno era arrivato.  

Prima di correre al capezzale della moglie, però, c’era da accogliere il suo amico fraterno, Enrique Gasbarron, uno dei trafficanti più ricercati al mondo, corso appositamente dalla Colombia per assicurarsi che il carico di coca giungesse a destinazione in tempo e con somma soddisfazione del Dio del rione Traiano.  

Falco, dal canto suo, non voleva affatto fare brutta figura. Consapevole che l’amore per il calcio era una delle caratteristiche che più li accomunava, aveva fatto commissionare da un abile gioielliere un rolex dal quadrante azzurro, la stessa tonalità della maglia del club. E il boss, proprio in quel momento, ne stava ammirando la pregiata fattura. Un lavoro delicato e raffinato ma dai colori brillanti e vivi che ben poco s’associava ai cupi muri di quel garage in cui erano nascosti e al cui interno, da una minuscola grata, filtrava giusto un mesto raggio di luce.  

La luce in quel garage era davvero poca. La luminosità che traspariva dagli occhi di Emanuele Falco, invece, irradiava quei 15 metri quadri come neanche il più luminoso lampione avrebbe saputo fare.  

Tutto era perfetto. Lui era perfetto. Era perfetto agli occhi del quartiere. Era perfetto agli occhi dei suoi cagnolini. Ed era perfetto anche agli occhi di sé stesso. Nulla avrebbe mai potuto rovinare quell’attimo di assoluta perfezione. Quella creata da un dio in terra che tutto può e tutto ha potuto. Tranne prevedere ciò che, da lì a pochi minuti, sarebbe accaduto.  

Intanto, a Villa Dora, Tina, la moglie di Emanuele Falco, era in sala parto. I medici avevano già preparato la sala operatoria. I due aborti spontanei subiti dalla donna avevano già lasciato intendere che non sarebbe stato un parto facile. Ma Tina Falco non era dello stesso parere.  

Per tutta la vita non era stata altro che la moglie del boss, incaricata soltanto di dare un erede al padrone di un impero criminale. Non era all'altezza di essere una donna di camorra. 

 Troppo volgare e ignorante perfino per questo ambiente, riuscendo anche a voltarsi dall'altra parte ogni volta che il marito si concedeva qualche scappatella matrimoniale.  

Lei che aveva avuto come unico obiettivo nella vita quello di essere una femmina da riproduzioneo, finalmente ci stava riuscendo. Ma il suo principe non era presente. C'erano affari molto importanti cui egli non poteva mancare. Al suo fianco, in quel momento, c’erano soltanto i cognati, Giuseppe Falco e sua moglie Nunzia.   

“Quindi, allora, se Dio non c’è, forse, almeno per questa volta, potrò decidere io per me stessa!”.  

Questo deve aver pensato Tina, all'atto di intimare al medico la sua volontà di procedere con il parto naturale. Perché Tina era una donna vigliacca, e di farsi aprire come un maiale per dare alla luce un figlio non ne aveva assolutamente voglia.  

Eppure le raccomandazioni del medico erano state chiare:  

“Signora, la sua condizione è molto rischiosa. Un parto naturale potrebbe rivelarsi più rischioso del cesareo”. 

Ma lei, sorda a questo monito e indirizzata soltanto verso l’urlo feroce del terrore che sale lungo la schiena fino ad avvolgerti la spina dorsale come una ragnatela, aveva continuato per la sua strada. E le altre urla, quelle del travaglio, volgari come solo quelle della moglie di un boss sanno essere, già trapassavano i muri della clinica, arrivando finanche a tutte le altre pazienti del reparto.  

Intanto, al rione, Enrique Gasbarron stava facendo il suo ingresso nel grande piazzale distante poche centinaia di metri dal luogo dell’incontro. Per l’occasione, aveva scelto un’Alfa Romeo nera. Una scelta dettata dalla sua grande passione per le auto italiane. L'autista di Enrique sembrava tranquillo e, anche se quei vicoli rappresentavano, per lui, una novità assoluta, li percorreva quasi come se gli appartenessero da sempre.  

D’altronde, le vie malfamate si somigliano un po' tutte. Quasi come se, dietro a ognuna di esse, ci fosse sempre il medesimo cantoniere; dal gusto pessimo ma di ironia discreta.  

Una volta arrestata l’auto proprio davanti al luogo prestabilito, uno dei tirapiedi di Emanuele Falco si avvicinò ai due colombiani per accoglierli a dovere. Il rione, in quel momento, era avviluppato da un’atmosfera surreale. I rumori erano minimi e anche il vociare insistente dei molti, troppi, residenti del posto, si era improvvisamente eclissato.  

Faceva caldo in quell’estate del 1987. Bastava una semplice canotta per percorrere le strade dove l’asfalto sembrava sciogliersi sotto le alitate instancabili di un sole enorme.  

Eppure, in quegli attimi, pochi uomini si trovavano nei pressi di quel vicolo.... e nessuno di loro aveva dimenticato di indossare una giacca.  

Gasbarron e il suo autista fecero per scendere dall’auto. L’uomo all’ingresso stava andandogli incontro. Da un macellaio poco distante si poteva udire distintamente il rumore della lama sbattere sul tagliere. Neanche un’anima, in quei secondi solenni, avrebbe messo mai bocca negli affari di Dio.  

Eppure, proprio in quel momento, un uomo, con la voce rotta da un tremolante e affaticato affanno, in sella a un motorino, aveva appena svoltato l’angolo di rimpetto al garage dell’incontro. 

“Emanuele!! Dove Stai? Emanuele rispondimi!!”  

Urlava l’uomo fasciato in un mix di molte paure.  

I colombiani si girarono. L’uomo all’ingresso, nel vedere quell’ossesso, fece un lieve passo indietro, sgranando gli occhi in una scarica di attonimento.  

Solo il boss nulla aveva udito. Troppa era la bellezza di quel rolex con i colori del Napoli, così stretto in una mano e prigioniero di un umido e fatiscente garage, illuminato solo da un insignificante raggio di luce.  

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Da lì a pochi istanti, quell’attimo di assoluta perfezione sarebbe stato strappato come un lembo di carne catturato dalle zanne di un pitbull.  

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