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Giovedì, 28 Marzo 2024
Vomero

Liceo Pansini, lettera aperta dei docenti: "Garantire un ritorno in presenza al 100% e in sicurezza"

"La DaD è stata, è e deve restare una misura emergenziale, volendo con ciò stroncare sul nascere ogni malsana tentazione di metterla a sistema. Eppure, malgrado questo, non vediamo quale altra opzione ci sia, al momento", dichiarano i professori

"Il Liceo Classico Adolfo Pansini di Napoli porta il nome di un giovane partigiano morto eroicamente durante le Quattro Giornate. È così che si comincia l’anno scolastico da noi, con l’omaggio della nostra comunità a quelle anime luminose i cui nomi restano scolpiti in un’epigrafe alla memoria, posta a pochi passi dalla nostra scuola. La nostra meravigliosa, inclusiva, straordinaria scuola, che ha saputo conquistarsi negli anni l’ammirazione, il rispetto, la gratitudine e il sincero affetto di migliaia di ragazze e ragazzi, non perché sia strutturalmente bella o particolarmente funzionale, ma per la preziosa peculiarità che la contraddistingue: la nostra è una comunità, con tutto ciò che questa parola semplice, ma potente, significa; ed è la prova viva e vera che tutto ciò che avete presupposto nell’approcciare la “questione scuola” è drammaticamente sbagliato.

LA SCUOLA PRIMA DELLA PANDEMIA

La pandemia non ha tout court causato la crisi della scuola di Stato: sono decenni che assistiamo ai tagli all’istruzione, decenni che andiamo avanti non grazie, ma nonostante le “riforme della scuola”, che hanno riformato poco, ma hanno distrutto tanto e che si sono avvicendate in questi anni senza criterio né progettualità, relegando docenti e studenti al ruolo di meri esecutori di un assetto deciso sempre altrove e sempre nella pressoché totale noncuranza delle istanze degli addetti ai lavori. Anni in cui il comparto scuola ha visto drammatici ed esponenziali tagli all’edilizia e alla formazione, nel disinteresse di quegli stessi politici che non solo non hanno contrastato, ma hanno di norma alimentato quel progressivo moto di delegittimazione sociale e professionale della classe docente, mai disgiunto dalla banale riduzione a “capriccio generazionale” delle istanze studentesche. La scuola di Stato era sull’orlo del collasso ben prima della crisi pandemica, che ha avuto il solo, ma ineludibile pregio di acuirne e renderne più visibili le criticità. E si badi bene che non si sta parlando di un singolo istituto, ma di una situazione generalizzata che investe l’intero sistema Paese. Secondo uno studio UE (Funding of Education in Europe - The Impact of the Economic Crisis del 2013), nell’ambito dell’istruzione, l’Italia era l’unica nazione che nel 2010 si ritrovava essenzialmente allo stesso valore di spesa del 2000. La sola Riforma Gelmini ha provocato un taglio di oltre 10 miliardi (dati DEF 2011). Nel periodo dal 2009 al 2016, la spesa complessiva per l’istruzione in Italia è passata dal 9,21 % della spesa pubblica al 7,81% (Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola, Bologna 2020). Ancora nel 2017, l’Italia ha investito nell’istruzione pubblica il 7,9 per cento della sua spesa pubblica totale: Stato membro UE ultimo in graduatoria (dati Eurostat). Bisognava essere consapevoli di questo, quando la pandemia ci ha raggiunto, e muoversi di conseguenza. Bisognava assumersi la responsabilità dell’evidenza di una condizione fattasi ormai insostenibile e avviare azioni strutturali. Viceversa, si è affrontato questo frangente gravissimo con la consueta leggerezza guascona, tirando avanti con slogan vuoti e tristemente lontani dalla complessità del reale, agendo su un singolo, marginale aspetto, e lasciando all’antica incuria tutto il resto. Sarebbe stato necessario ricordare che moltissime scuole non hanno edifici né sistemi di areazione a norma, che non hanno riscaldamenti efficienti, né personale sufficiente; che le classi contano anche 27 alunni e le aule sono ridicolmente piccole, che i ragazzi non si materializzano nel banco mediante un tubo catodico, ma sono quotidianamente costretti a raggiungere gli istituti stipati come bestie in autobus o vagoni-metro sempre insufficienti, che nei bagni mancano persino sapone e carta igienica.

DALLA DIDATTICA IN PRESENZA ALLA DAD

Durante la prima ondata le scuole superiori sono state fisicamente chiuse e la didattica in presenza convertita in DaD: non è stato certo un gesto eroico, ma almeno ciò sembrava manifestare un esercizio di realismo, presupposto primo a ogni azione di cambiamento. Quale distorta percezione della realtà ha poi ritenuto di poter arginare un virus pandemico con dei banchi a rotelle? Banchi che, tra l’altro, tantissimi istituti non hanno neanche mai visto e che certificano icasticamente l’approssimazione e l’infantilismo dissennato che hanno fatto da sottofondo alla gestione di questa ennesima emergenza, mentre si è completamente abdicato a misure più tempestive e razionali, quali, ad esempio, la sospensione del PCTO (ferma restante l’obbligatorietà del quale, i ragazzi sono stati costretti a restare inchiodati al pc non solo la mattina, ma anche il pomeriggio). In seguito al primo lockdown, la didattica a distanza ci è piombata sulla testa come una mannaia: al netto di ciò che l’opinione pubblica ritiene di sapere, noi docenti non abbiamo mai lavorato tanto come in DaD (tra didattica, riunioni, consigli, ore destinate a preparare le lezioni, messa a punto e correzione di elaborati, ore in asincrono et cetera), per tacere del fardello emotivo e psicologico derivante dalla gestione di un disagio doloroso e diffuso tra le studentesse e gli studenti; un disagio nuovo, strisciante, sconosciuto, che ci siamo caricati sulle spalle con empatia e consapevolezza, consci (noi lo siamo) della delicatissima e a tratti distopica contingenza, in cui prima di tutto (e soprattutto) ragazzi e ragazze erano stati inopinatamente catapultati. Lavorare a distanza ci ha messo di fronte a rilevanti difficoltà e non solo per ciò che concerne la condivisione, problematizzazione e verifica di saperi e competenze. La prossimità virtuale ha annullato la separazione tra luogo pubblico e privato, tra dimensione lavorativa, da una parte, e spazio individuale e intimo, dall’altra. E se la DaD ha isolato i diversamente abili, acuendone la solitudine nella distanza, non può però dirsi accettabile la didattica in presenza nelle forme a loro proposte: gli orari sono sballati e i ritmi poco congeniali alla personalizzazione del curricolo, per non parlare delle oggettive difficoltà a rispettare il distanziamento e a comunicare attraverso mascherina e visiera. Vorremmo quindi sottolineare con fermezza che la DaD è stata, è e deve restare una misura emergenziale, volendo con ciò stroncare sul nascere ogni malsana tentazione di metterla a sistema. Eppure, malgrado questo, non vediamo quale altra opzione ci sia, al momento. I favorevoli al rientro “senza se e senza ma” hanno provocatoriamente fatto lezione in piazza, proponendo la didattica all’aperto, nei musei e nei luoghi di cultura: splendide suggestioni, ma poco praticabili in una declinazione nazionale e quotidiana. A marzo e a ottobre 2020, con una situazione epidemiologica di gran lunga migliore della presente, siamo stati collocati in DaD.

LA DIDATTICA 50-50

Come è possibile che oggi, con dati più allarmanti di ottobre e al cospetto dell’evidenza inequivocabile che nulla è stato fatto per migliorare la condizione di docenti e studenti, voi riteniate di disporre un ritorno alla didattica in presenza? Com’è possibile che si ignorino gli avvertimenti dello stesso Istituto Superiore di Sanità, che l’8 gennaio 2021 ha dichiarato che, anche con un Rt minore di 1, “riattivare quasi completamente i contatti sociali e le scuole di ogni ordine e grado, come avvenuto in tarda estate” può provocare “un’onda epidemica non contenibile senza severe misure restrittive” (CS n.2/2021, Studio FBK-ISS-INAIL)? Chi si assume la responsabilità umana, civile e penale delle conseguenze sulla salute fisica e psicologica di docenti e studenti a seguito di un ritorno in presenza con questi presupposti? Per molti istituti, la presenza significa metà dei ragazzi in classe e metà a casa: chi propone questo non ha chiaramente idea alcuna di cosa stia parlando. Del resto, per mesi i pedagogisti hanno ripetuto fino allo sfinimento che la didattica a distanza e quella in presenza impongono la ricezione e l’attuazione di due paradigmi radicalmente diversi, che necessitano mutamenti nello stile comunicativo, nella selezione dei contenuti, nelle verifiche, nella valutazione. Siamo del tutto d’accordo. E ciò è tanto vero che, all’indomani della conversione in DaD, il corpo docente si è subito attrezzato per utilizzare le nuove tecnologie, per ripensare la didattica alla luce del medium informatico (il tutto, beninteso, senza beneficiare di alcuna formazione). Abbiamo imparato sul campo, fra auto-formazione, confronti, prove ed errori, inventandoci ex novo strategie e modalità innovative e creative: nelle scuole si è lavorato come forsennati per elaborare nuove disposizioni didattiche e darsi differenti e più performanti strumenti di lavoro. Qualcuno dovrebbe dunque spiegarci perché si è preteso un simile sforzo, visto che la didattica 50-50 oggi vigente lo contraddice in toto, imponendo di fatto al docente (che è uno, non doppio, vorremmo ricordarlo) di rivolgersi nelle stesse modalità a chi è in classe e chi è a casa. E glissiamo sulla pretesa irrealistica (e contraria ad ogni studio di settore nonché al buon senso) di impedire agli studenti di fare merenda anche per 7 ore; glissiamo sulla lunare aspettativa di sanificazione degli spazi (d’aula e sanitari) e dei pc alla fine di ogni ora; glissiamo sulle conseguenze attese del comprensibile bisogno di socialità che nei luoghi periscolastici spinge gli adolescenti ad assembrarsi; glissiamo sulla totale inadeguatezza della nostra strumentazione, che dovrebbe garantire ricezione e trasmissioni ottimali dal piccolo microfono di un pc all’interno di un’aula con le finestre aperte (in pieno inverno), con conseguente de-potenziamento e distorsione di ogni comunicazione. La didattica 50-50 semplicemente non funziona: colloca gli studenti in una condizione di disparità di accesso alla didattica, a cui il docente realisticamente non può (e metodologicamente non deve) far fronte. Se c’è una cosa che questa situazione ha reso chiaro è che non si può tollerare oltre che la politica bivacchi nel lassismo e nell’inadempienza: docenti e studenti non chiedono di tornare all’era pre-covid, perché la scuola era già ridotta in macerie.

L'APPELLO ALLE ISTITUZIONI

La scelta non è tra ciò che avevamo e ciò che abbiamo oggi: non c’è scelta tra cappio e veleno. L’unica scelta possibile è assumersi l’onere politico di una ricostruzione sistemica del comparto, a cominciare dall’edilizia scolastica: un’operazione che, con un minimo di coraggio e di visione, poteva iniziarsi 10 mesi fa (allorché risultò palese che il virus non ci avrebbe lasciato né rapidamente né facilmente) e che, rebus sic stantibus, non è più derogabile. Tutto ciò considerato, delle due l’una. O garantire a docenti e studenti un ritorno in presenza al 100% e in sicurezza, previa somministrazione dei vaccini o assumersi la responsabilità civile e politica di certificare l’impossibilità di implementare la didattica in presenza e lasciare che le scuole superiori restino in DaD fino a quando chi di dovere non avrà la decenza di risolvere realmente questa situazione, attraverso misure concrete e coerenti, volte non solo a tamponare, ma ad avviare una ricostruzione concreta, reale e profonda che restituisca a questo Paese una scuola di Stato degna di questo nome. Tertium non datur. Né si può chiedere a docenti e studenti di rischiare la salute e compromettere la relazione educativa per coprire le inefficienze altrui. O meglio, si può: la legge (che non sempre cammina al fianco della giustizia) ve lo consente, ma certo questo non vi esime dall’assumervi la responsabilità di ciò che comporteranno questi provvedimenti miopi, inadeguati, demagogici e dannosi. Il Liceo Pansini è una comunità e ha continuato ad esserlo anche in DaD. Chiederci di immolare la qualità della nostra didattica e l’inclusività, che è bussola della nostra azione educativa e formativa, sull’altare dell’incapacità politica è un atto ingiusto e contrario a tutto ciò che ci sta a cuore. È l’ultimo e più grave attacco alla scuola di Stato e al riguardo non possiamo che esprimere il nostro più fermo dissenso e la nostra legittima indignazione".

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