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Mazzarri: "Fra 3 o 4 anni potrei anche lasciare il calcio"

Il tecnico azzurro si confessa ai microfoni de La Stampa

Walter Mazzarri ha rilasciato una lunga intervista a La Stampa. Ecco quanto evidenziato da Napoli Today:

Mazzarri, Napoli sogna. E lei?
«Lo faccio anch’io, da tifoso. Poi mi rivesto da allenatore e dico che i sogni sbattono sempre contro la realtà».

Che sarebbe?
«Il calcio non è una scienza esatta ma è abbastanza precisa. E in base ai miei parametri non siamo ancora pronti per giocarcela alla pari con chi ha un monte ingaggi enormemente superiore e può fare un mercato diverso dal nostro. L’ho sempre detto. Per questo non mi fa paura l’entusiasmo enorme che circonda la squadra e che potrebbe trasformarsi in delusione: la gente sa come la penso e sa che stiamo già facendo qualcosa di grande».

Con questa logica lo scudetto non tornerà mai a Napoli.
«Non è vero. Bisognerà spenderci tempo, competenza, idee chiare. Di una cosa sono però sicuro: quando lo scudetto tornerà a Napoli non sarà perché gli sarà paracadutato un Maradona che risolve i problemi ma perché avrà costruito un progetto serio e duraturo».

Eppure De Laurentiis potrebbe essere il presidente giusto per ingaggiare il grandissimo attore come fa nel cinema.
«Tutti mi assicurano che con il fair play finanziario certe operazioni fuori budget non saranno più possibili. Me lo dice anche lui».

Quanto è difficile lavorarci insieme?
«Dal primo incontro gli chiesi chiarezza: l’ho data e l’ho avuta».

Significa che non ci sono ingerenze nel suo lavoro?
«Io mi considero il caporeparto di un’azienda e quindi devo qualsiasi spiegazione a chi mi paga. Però mi aspetto che prima di trarre giudizi ascolti, anche perché credo di essere l’allenatore più rintracciabile d’Italia: mi si può chiamare persino alle 4 di mattina, tengo sempre il telefonino acceso».

De Laurentiis l’ha mai fatto?
«Non alle 4 ma alle 6 e mezza. Erano i primi tempi, c’erano tante cose da sistemare».

E i giocatori?
«Potrebbero farlo ma a quell’ora dormono. Spero».

Lei dorme?
«Pochissimo. Spesso lavoro anche nel sonno, il tempo non mi basta mai ed è per questo che non so quanto potrò reggere. Può darsi che tra 3 o 4 anni mi ritiri, tanto le mie soddisfazioni le ho avute e le sto avendo anche qui».

Senza aver mai allenato una grande?
«Nel frattempo conto che sia tornato grande il Napoli. Alle altre non penso: forse mi chiamerebbero se vincessi questo scudetto o se fossero alla disperazione, perché sanno che i risultati li ottengo. In 11 anni mai un esonero e sono sempre andato oltre gli obiettivi di classifica e di bilancio: evidentemente non basta».

Si è chiesto perché?
«Perché da calciatore mi sono fatto conoscere poco e da allenatore non ho mai cercato sponde. La definizione di lupo solitario non mi piace ma è abbastanza vera: la popolarità mi imbarazza, non ho tempo per frequentare i giornalisti e non cerco l’amicizia dei colleghi. Li rispetto tutti, sono il primo ad ammetterlo se mi battono con merito e il primo ad arrabbiarsi se non fanno altrettanto, come successe con Mourinho: forse dovevo stare zitto? E poi so che siamo pronti a farci le scarpe l’un l’altro».

In effetti nel suo ambiente non passa per un simpaticone.
«Perché per difendere il mio lavoro cito i numeri, la sola cosa che non è aleatoria. C’è chi la scambia per superbia o per spregio dei colleghi e si creano le leggende: purtroppo molti presidenti al momento di decidere ascoltano quelle invece di parlare con l’interessato e sentire cosa propone. Nelle aziende di solito non succede di scegliere i collaboratori in base alla simpatia o all’atteggiamento più che alle idee. Nel calcio invece capita».

Qual è per lei il segreto del Napoli?
«Aver mantenuto la base dell’anno scorso per cui non ho dovuto ricominciare tutto da capo. Credo nel calcio fatto di automatismi estremi, di movimenti spiegati fino alla noia: per questo non sono molto favorevole agli acquisti di gennaio che rischiano di sballare la macchina che funziona. In estate invece mi bastano le settimane di ritiro per far capire cosa voglio».

Intanto ha Cavani. Come l’ha trasformato in un goleador?
«Avevamo il sospetto che possedesse le doti per segnare di più e quando esiste anche soltanto l’1 per cento di possibilità che una cosa si avveri bisogna provare a realizzarla».

In parole povere?
«Lui si è avvantaggiato della nostra velocità con la palla a terra, dei tempi in cui svolgiamo l’azione e del fatto che deve correre meno di prima. Alla sua età e con il suo fisico non è un problema se fa due rientri, l’importante è trovare la misura dello sforzo che non gli faccia perdere la lucidità sotto porta. E poi c’è la cosa più importante».

Quale?
«Insegnare i movimenti all’attaccante, non ci si può affidare alla sua istintività e all’improvvisazione. Ho sempre lavorato molto sul gioco offensivo. Lucarelli e Protti a Livorno, Bianchi e Amoruso a Reggio, Bellucci che a fine carriera ottenne il massimo dei gol alla Sampdoria me ne sono testimoni. Anche un grande goleador lo diventa di più se lo aiuti a far la cosa giusta».

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