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Martedì, 23 Aprile 2024
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La “Terra dei Fuochi” infiamma il Forum Greenaccord di Napoli

La seconda giornata di lavori è stata monopolizzata dal confronto sul tema degli interessi dei clan nella gestione dei rifiuti e sulle strategie possibili per contrastarli. Tra i relatori, il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti e il presidente della Commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci

Fra pochi mesi saranno passati vent’anni. Era il 1994, quando, grazie a un rapporto di Legambiente, venne coniata la parola “Ecomafia”. Un termine destinato a entrare nel vocabolario sia italiano che internazionale e, soprattutto oggi, di grandissima attualità visto lo scalpore suscitato dai verbali desecretati con le dichiarazioni del pentito Carmine Schiavone sulla Terra dei Fuochi. Un tema italiano che però attrae un’attenzione globale. Prova tangibile è l’enorme pubblico,  che ha letteralmente affollato la sala di Castel dell’Ovo dove si è svolta la “Tavola rotonda sulle Ecomafie”, organizzata nell’ambito del X Forum internazionale Greenaccord dell’Informazione per la Salvaguardia della Natura. A confrontarsi con i relatori, giornalisti da tutto il mondo, appartenenti alla rete di giornalismo ambientale di Greenaccord.

Tra gli ospiti intervenuti, il Procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti; il vescovo di Aversa, Angelo Spinillo, il coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle ecomafie di Legambiente, Antonio Pergolizzi e il presidente della Commissione Ambiente della Camera dei deputati, Ermete Realacci, e il direttore dello Sbarro Institute di Philadelphia Antonio Giordano.

Tre i temi su cui si sono concentrati gli interventi: l’efficacia degli strumenti a disposizione di magistratura e Forze dell’ordine per contrastare il fenomeno dello smaltimento illegale dei rifiuti, le strategie per effettuare le bonifiche dei territori contaminati, le condizioni che hanno permesso il dilagare di un fenomeno che trascende l’aspetto meramente giudiziario diventando tragedia sociale, ambientale, economica e sanitaria.

“Quando, a metà degli anni ’90 parlavamo di sversamenti illegali di rifiuti che avvelenavano il territorio venivamo visti come marziani, anche dagli operatori dei media” ricorda il presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio, Ermete Realacci, all’epoca presidente di Legambiente. “Solo due troupe – CNN e Videomusic – accettarono di venire con noi a vedere la condizione dei terreni vicino alla base Nato di Licola (NA)”. Ora il problema è sulla bocca di tutti. Ma gli strumenti per contrastarlo sono stati perfezionati negli anni. Ma sono ancora tutt’altro che perfetti. Sia a livello giudiziario sia legislativo. “Il Parlamento deve in tempi brevissimi completare l’iter di istituzione, anche nell’attuale legislatura, della Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti. Allo stesso tempo, sarebbe estremamente utile destinare alle attività di bonifica parte delle risorse derivanti dai beni sequestrati alla criminalità”, auspica Realacci, che ha poi difeso la scelta di desecretare i verbali dell’audizione rilasciata nel 1997 dal pentito dei Casalesi, Schiavone alla Commissione Ecomafie: “Le istituzioni devono essere prive di zone d’ombra. Anche se, nei contenuti, le parole di Schiavone non aggiungono nulla rispetto a quanto già noto”.

Ma anche per effettuare le bonifiche occorre estrema attenzione, per individuare con precisione i siti su cui intervenire e per evitare che anche tale attività si trasformi in un affare per la criminalità: “Rimanere sul generico, come fa Schiavone nelle sue dichiarazioni, è un paradossale favore ai clan perché uccide i margini per costruire economie legali e di qualità, che siano alternative a quelle inquinate dalle famiglie criminali”.

Si è invece concentrato sull’evoluzione degli strumenti normativi per perseguire i reati ambientali, il procuratore nazionale Antimafia, Franco Roberti. Nella sua relazione, un perfetto mix tra rammarico per gli errori passati e speranza per il futuro. “Mi ricordo quando un camorrista mi disse che lavorava con i rifiuti e non con la cocaina perché le eventuali sanzioni erano risibili”. In effetti, fino al 2001 il reato prevedeva solo una contravvenzione e questo – spiega Roberti – ci impediva di usare le intercettazioni telefoniche, di coinvolgere l’Interpol e di contestare il reato di associazione a delinquere”. Ora la situazione è fortunatamente diversa, grazie alle norme introdotte tra il 2006 e il 2010. “L’anno scorso poi un protocollo d’intesa tra l’Antimafia e il Corpo Forestale dello Stato ha permesso di fare indagini preventive sui reati spia, mappando meglio i territori in cui avvengono e permettendoci di intervenire in modo più mirato”.

Ma il problema è ben lontano da una soluzione. Sia perché la criminalità si è aggiornata, costruendo sinergie mondiali per trasferire i rifiuti all’estero (Cina, Est Europa, Corno d’Africa le destinazioni più a rischio) e infiltrandosi nella Green economy con investimenti nel fotovoltaico, nell’eolico e nelle biomasse (“la vicenda del Parco eolico di Isola Capo Rizzuto è solo la punta dell’iceberg” ammonisce Roberti”). Sia perché la difficoltà di perseguire i reati ambientali si inserisce nei decennali problemi del pianeta giustizia in Italia: “Se la giustizia penale antimafia tutto sommato funziona – osserva Roberti – il mondo della giustizia penale ordinaria langue. Ancora oggi vanno in prescrizione moltissimi reati, con punte del 50%”. Inevitabile una richiesta forte a Governo e Parlamento affinché metta mano al sistema delle prescrizioni, per aumentare i tempi a disposizione dei giudici per arrivare a condanna definitiva.

Questioni già note a chi si interessa del fenomeno rifiuti da più tempo. Come Legambiente, che da 19 anni produce il rapporto Ecomafie. “Le dichiarazioni di Schiavone non fanno che confermare quanto diciamo da due decenni” osserva il coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle ecomafie di Legambiente, Antonio Pergolizzi, che nel suo intervento lancia un duro atto d’accusa contro l’inazione di ampi settori dello Stato. “Se i clan sono entrati nella gestione dei rifiuti è perché il settore era abbandonato dallo Stato. E più i rifiuti erano tossici, pericolosi, difficili da smaltire per vie legali, più i margini di guadagno per la criminalità erano elevati”. Una situazione che ha letteralmente avvelenato il territorio: “molte opere stradali sono state fatte con rifiuti mescolati con il cemento” denuncia Pergolizzi. “Persino nel sedimento stradale sono stati occultati rifiuti tossici e radioattivi”.

La responsabilità ovviamente è nella fame di denaro dei clan mafiosi. Ma non solo. La connivenza di professionisti, amministratori, politici è stata cruciale. “Non c’è indagine in cui non siano stati coinvolti colletti bianchi. Politici, burocrati, funzionari pubblici ed esperti privati hanno avuto un ruolo attivo. Ecco perchè la risposta non può essere solo giudiziaria. Deve arrivare invece dalla valorizzazione delle buone pratiche e dei pezzi di economia che cerca di combattere lo status quo”.

Un riscatto collettivo in cui ognuno è chiamato a fare la sua parte, per quanto piccola possa sembrare. A partire dall’abbandono di quella che Papa Francesco ha definito “cultura dello scarto”. Un concetto ricordato dal Angelo Spinillo, vescovo di Aversa. “Quello del pontefice è un appello alla popolazione civile a ribellarsi contro una situazione sbagliata e a un modello opprimente, che ci spinge a considerare scarto tutto ciò che non ci è utile in un certo momento”. Spinillo ricorda come i vescovi campani abbiano da tempo prodotto documenti contro mafia e camorra “ma solo quando le conseguenze delle attività criminali sul nostro territorio sono state toccate con mano, l’opinione pubblica ha preso davvero coscienza del problema ed è finalmente possibile tenere alta l’attenzione sul fenomeno, sperando di arrivare a risultati concreti”.

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