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Salute

Tumore della prostata, l’urologo: “Una diagnosi precoce riduce il rischio di mortalità”

“Seguire uno schema di prevenzione annuale, che preveda il dosaggio del PSA nelle sue frazioni e una visita specialistica, è fondamentale per diagnosticare la malattia in tempo e migliorare le possibilità di cura”. L’intervista al dott. Paolo Verze

- Sulla reale utilità del PSA c’è gran confusione sui media. Può aiutarci a fare un pò di chiarezza?

“Le polemiche sono state generate qualche anno fa quando furono pubblicati i primi dati di due grossi studi, di cui uno americano e uno europeo, il cui scopo era quello di valutare la reale utilità di eseguire uno screening di massa per la diagnosi di tumore prostatico con il dosaggio del PSA. I dati dei due studi erano contrastanti, per cui generarono una certa confusione sulla reale utilità dell’impiego del PSA. Quello che oggi si può affermare con convinzione è che l’utilizzo del PSA come marcatore che fornisce un sospetto, aiuta a salvare vite perché riduce la mortalità collegata al tumore prostatico. Questo dato però sottolinea ancor di più l’importanza di un corretto utilizzo del PSA, che deve rappresentare uno strumento per “spingere” il paziente ad eseguire un corretto e completo inquadramento specialistico da parte dell’urologo, non limitandosi alla semplice lettura del risultato del laboratorio”.

- Si parla di avanzamenti tecnologici di ultima generazione e DI sviluppo di metodiche sempre più accurate e precise nella diagnosi del tumore prostatico. Cosa può dirci a riguardo?

“La ricerca in questo settore è stata molto fervida negli ultimi anni. Oggi disponiamo di nuovi strumenti per una diagnosi più accurata, soprattutto da un punto di vista della diagnostica per immagini. Infatti la Risonanza magnetica multi-parametrica della prostata sta diventando sempre più un caposaldo dell’iter diagnostico, perché attraverso una sofisticata interpretazione di alcuni parametri, ci consente di capire se all’interno della ghiandola ci sono una o più zone di aspetto alterato ed il cui comportamento biologico fa sospettare la presenza di un tumore, superando di fatto la diagnostica ecografica convenzionale. Fra l’altro la presenza di un’area sospetta alla risonanza consente oggi di effettuare biopsie di alta precisione (la cosiddetta biopsia fusion), che consentono di concentrare il prelievo di tessuto dalle zone sospette, facendo aumentare la percentuale di diagnosi di tumore. Per quanto riguarda invece nuovi marcatori, va detto che nonostante grandi sforzi nella ricerca del settore, ad oggi si continua a considerare il PSA, nonostante i suoi limiti, l’unico su cui basare la diagnosi di sospetto. Ma sono altrettanto convinto che nell’arco dei prossimi anni avremo nuovi strumenti affidabili da ricercare nei pazienti e che ci consentiranno di capire chi è il paziente a rischio per la presenza di un tumore prostatico e nel quale è necessario iniziare un iter diagnostico mirato”.

- Come viene curato oggi il cancro della prostata? Quali sono le soluzioni terapeutiche?

“La terapia del tumore prostatico dipende dal tipo di malattia che ci troviamo difronte. Va fatto un distinguo fra le forme di tumore clinicamente più aggressive e che hanno maggiore possibilità di progredire fino allo sviluppo di metastasi, e le forme invece a minor rischio di progressione. Questa distinzione oggi è possibile stabilirla sulla base del grado di aggressività del tumore che si rileva alla biopsia, indicato come punteggio Gleason. A valori di Gleason 6 corrisponde una condizione di bassa aggressività, e per questi pazienti si può prendere in considerazione un trattamento conservativo, basato sulla sorveglianza attiva o sul trattamento focale della singola lesione presente nella prostata. Va ben precisato che sia la sorveglianza attiva che il trattamento focale vanno attualmente considerati terapie sperimentali, per cui devono essere rigorosamente eseguiti in un contesto clinico di protocolli di ricerca che offrano al paziente tutte le garanzie in termini di esami e controlli da eseguire. Viceversa, per casi di punteggio Gleason uguale o superiore a 7, è indicato un trattamento radicale, preferibilmente chirurgico o in alternativa con la radioterapia. Ovviamente per i casi più aggressivi può essere necessario anche una combinazione dei trattamenti, prevedendo prima la terapia chirurgica e a seguire la radioterapia”.

- Nelle fasi precoci della malattia ci sono, quindi, ottime possibilità di cura. Cosa succede a chi presenta, invece, uno stadio più avanzato della malattia?

“Come considerazione generale possiamo affermare che anche in questo contesto sono state introdotte nel corso degli ultimi anni molte terapie efficaci e chi garantiscono molte più opzioni da offrire ai nostri pazienti. Sia quelli che già sono stati in precedenza trattati e che poi hanno una progressione della malattia fino allo sviluppo di metastasi, sia quelli che al momento della prima diagnosi presentano una malattia avanzata già metastatica, possono essere trattati con farmaci orali, efficaci e molto ben tollerati. Fino a qualche tempo fa ai pazienti si poteva solo proporre la terapia di blocco degli ormoni maschili, in attesa che ci fosse un aggravamento della malattia eventualmente da curare con la chemioterapia; oggi non è più così, grazie a farmaci in grado di ritardare la comparsa di metastasi e quindi di complicanze associate, oltre ad allungare la vita dei nostri pazienti anche di 1-2 anni”.

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