"Caini" in scena al Piccolo Bellini
Dal 25 al 30 ottobre, al Piccolo Bellini va in scena Caini, con la drammaturgia e regia Mario De Masi.
I Caini. È il soprannome che il vicinato riserva a un nucleo familiare di persone chiuse e schive, tacciate dai più di infamia e avvolte da un alone di mistero. Il padre è morto in circostanze poco chiare, lasciando soli la madre e i tre figli, due maschi e una femmina, a custodia di un segreto. La ragazza conosce in discoteca un artista, un giovane ossessionato dalla propria ricerca intorno al concetto di verità e dal processo di creazione di una nuova opera. Se ne innamora e, su pressione della famiglia, decide di presentarlo ai suoi parenti. Quando il ragazzo entra in casa, i Caini si ritrovano, loro malgrado, a confrontarsi con la sua curiosità e la sua candida trasparenza che rischiano di mettere a repentaglio il segreto e l’esistenza stessa del nucleo familiare. La sua ricerca lo conduce a toccare, involontariamente, il nervo scoperto della famiglia, suscitando così la reazione violenta dei Caini che li condurrà tutti verso un epilogo tragico e beffardo.
NOTE DI REGIA
Il progetto Caini è il terzo capitolo di una trilogia dedicata alla famiglia. Nel primo capitolo, Pisci 'e paranza (2015), abbiamo affrontato il tema della famiglia in relazione alle questioni della marginalità e della ricerca degli spazi vitali. Supernova (2018), il secondo capitolo, è un lavoro attraverso il quale abbiamo indagato i processi di disgregazione di un nucleo familiare, alle prese con le dinamiche dell’elaborazione del lutto.
Con Caini vogliamo intraprendere un percorso di ricerca che indaghi i concetti di verità e menzogna, il legame tra arte e convenzioni sociali, il rapporto tra colpa e pena e la relazione necessaria tra sacro e violenza nel sacrificio. La famiglia di Caini è un nucleo chiuso ed esclusivo, fondato non solo su l'inscindibilità del legame di sangue, ma anche intorno a un segreto.
Il codice dei Caini impone loro di essere impietosi e di stare uniti. Un ordine condiviso di reticenze e dimenticanze - quasi rimozione collettiva - e un orizzonte di senso che si organizzano intorno al mantenimento del segreto. Il sacrificio del padre è fondativo. La sopravvivenza del gruppo dipende da tutto questo; la loro sopravvivenza individuale dipende dal gruppo.
Lo spazio dell’azione è la cucina - intorno ad un grande tavolo con una candida tovaglia - dove madre e figli rinnovano la loro reciproca appartenenza a un mondo greve, arretrato, coeso, fatto di misoginia paesana, religiosità viscerale e contraddittoria, un’impietosa visione del mondo. L’atto rituale del mangiare insieme è riconferma collettiva dell’identità, della specularità bestiale, della reciproca appartenenza.
Rintocchi di campane scandiscono l’andamento liturgico dei litigi tra fratelli. Tutto ciò che è estraneo viene considerato ostile, portatore di una diversità che se non si omologa non viene riconosciuta e va dunque eliminata.
L’ingresso di una figura esterna, per tramite della figlia, ha una portata esplosiva per le abitudini del gruppo familiare. Il discorso dell’artista sulla verità e il suo modo di essere - candido, puro, trasparente - aprono una breccia nell’identità monolitica dei Caini e fanno emergere dubbi, fragilità che rischiano di mettere in discussione la stessa presunta inscindibilità del loro patto di sangue. A questo punto lo scontro tra prospettive e modi di stare al mondo diviene inevitabile e riconferma le rispettive identità, rimarcandole e irrigidendole.
La situazione precipita quando l’artista espone la sua visione, l’intuizione che porterà alla prossima opera. La sua ricerca della verità funge involontariamente da “trappola per topi” per la coscienza sporca di sangue dei Caini. Messi di fronte allo specchio e viste smascherate, per puro caso, le dinamiche dell'assassinio del padre, da loro stessi compiuto anni prima, essi rivivono e riattualizzano l’atto fondativo della loro comunità. L’opera dell’artista è innocente e inconsapevole e lo staglia come un eroe dal destino tragico. La mimesi del loro segreto è la goccia che fa traboccare il vaso, che accende la miccia della violenza sacrificale, atto espiatorio che ristabilisce l’ordine del patto familiare. Il sacrificio placa la loro ancestrale sete di sangue e non resta altro che chiedere perdono all’incolpevole capro espiatorio.
L’arte assolve qui al suo compito: smuove le coscienze, illumina le convenzioni che crediamo verità assolute. Problematizza il nostro posto nel mondo, ci sposta, ci commuove. E allo stesso tempo espone chi si prende la responsabilità di reggere quello specchio alla natura.
L’artista nietzscheanamente afferma che la verità è vuota, cava, ma la ricezione integrale di questa verità è problematica per chi vive in un gruppo sociale, immerso nella convenzione del linguaggio; l’impatto di questa affermazione è enorme. Ascoltarla porta a dover accettare l’assenza di senso della vita o perlomeno di un suo senso assoluto. Ci fa rendere conto che siamo soli. E ci lascia soli davanti a quel vuoto. È un’affermazione che mette in pericolo chi la fa e chi la ascolta. È uno spaesamento, una tabula rasa dei riferimenti a cui siamo abituati. La portata della Verità o meglio del mettersi alla sua ricerca è rivoluzionaria. Tale ricerca contrappone la solitudine assoluta dell’artista all’omertà dei gruppi familiari e sociali che funzionano e si stringono intorno alla menzogna del linguaggio. Per dirla con Nietzsche questi ultimi funzionano nella misura in cui “mentono bene”, i suoi membri sono in grado di gestire le loro
interazioni attraverso un codice, una convenzione, una serie ordinata di menzogne.
L’artista è quel corpo di interposizione che concretamente si espone, che indica la contraddizione e finisce per rimanerne stritolato.
Paradossalmente è lui “a farsi fuori” candidamente, a farsi bersaglio dell’invidia sociale, di tensioni e linee di conflitto che serpeggiavano già tra i membri del gruppo e a catalizzarne gli effetti negativi. In fin dei conti è ancora lui a permettere alla società umana di sopravvivere immutata nella sua forma dopo aver rifondato e aver reso naturale il suo patto.
Quale può essere dunque la relazione dell’artista con la società? È possibile ascoltare e comprendere l’altro al di fuori di un enorme e pericoloso equivoco?