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Cultura

La storia della Chiesa di Santa Luciella e del teschio con le orecchie

Una piccola e antica chiesetta, situata a San Biagio dei Librai e dedicata a Santa Lucia, protettrice della vista, che custodisce nei suoi sotterranei la famosa capuzzella con le orecchie

Tra le bellezze nascoste narrate da Aberto Angela nel corso della puntata “Stanotte a Napoli” c’è la piccola e antica Chiesa di Santa Luciella, situata nel vico Santa Luciella (chiamato dai romani “vicus Cornelianus”), che collega San Biagio dei Librai a San Gregorio Armeno. La Chiesa fu fondata poco prima del 1327 da Bartolomeo di Capua, giureconsulto e consigliere politico di Carlo II e Roberto I d'Angiò, divenendo successivamente luogo di culto per la Coroporazione dei Pipernieri, Fabbricatori e Tagliamonti che proprio a Santa Lucia affidavano la protezione della vista, messa a rischio dal proprio mestiere. La Chiesetta, rimasta chiusa per 40 anni e ridotta in uno stato di degrado e di abbandono, è stata recuperata nel 2013 e riaperta al pubblico grazie ai ragazzi dell’Associazione Culturale Respiriamo Arte, che l'hanno resa non solo elemento di sviluppo turistico-culturale del territorio ma anche luogo di inclusione sociale.

“La chiesa – raccontano i ragazzi dell’Associazione – è rimasta chiusa dal 1980 (terremoto dell'Irpinia) al 2019. In questi anni è diventata un discarica abusiva, un deposito di sedie, presepi, stufe, ecc. Quando nel 2013 abbiamo iniziato l’opera di recupero, abbiamo ricostruito i solai, ormai crollati, rimosso l’amianto che faceva parte della costruzione, messo in sicurezza l’Organo settecentesco che necessita di un restauro urgente, e piano piano stiamo proseguendo con i lavori che non sono ancora ultimanti. Tutto quel che abbiamo fatto fino ad ora è stato possibile grazie anche al finanziamento dell'Istituzione napoletana Pio Monte della Misericordia che ha versato 35 mila euro affinchè la chiesa potesse tornare agibile”.

Le origini della Chiesa di Santa Luciella

La Chiesa è stata fondata nel 1327 da Bartolomeo di Capua, giureconsulto, giurista e uomo di fiducia presso la corte dell’allora Re di Napoli, Roberto I d’Angiò. Quest'uomo era così potente che riuscì a realizzare una piccola chiesetta privata per la sua famiglia nel cuore del centro storico di Napoli, dedicandola a Santa Lucia, perchè aveva ricevuto - come riportano diverse fonti scritte - un miracolo alla vista. Santa Lucia è, infatti, secondo la Chiesa cattolica, la santa protettrice della vista. Essendo la chiesa di piccole dimensioni, e per distinguerla dalle altre chiese presenti a Napoli dedicata alla santa, è stata soprannominata “Chiesa di Santa Luciella” (“Luciella” non sarebbe, quindi, che un vezzeggiativo di “Lucia”).

La corporazione dei Pipernieri

L’attuale struttura della Chiesa è barocca, perchè tra il 1600 e il 1700 si insediarono qui due corporazioni (le corporazioni, sin dal Medioevo, erano una sorta di sindacati che si occupavano di tutelare i diritti, i doveri e privilegi di determinate categorie professionali): prima quella dei Molinari (capostipiti mugnai o lavoranti presso un mulino) e poi quella dei Pipernieri, operai che lavoravano il piperno, pietra dura tipica napoletana. Nella veduta del Baratta del 1629, la Chiesa di Santa Luciella viene indicata come Cappella dell’Arte dei Molinari o Mulinari. Solo successivamente sarà presa in custodia dai Pipernieri, che, come abbiamo detto, lavoravano il piperno, una pietra scura e vulcanica molto resistente ma anche molto difficile da trattare. Spesso capitava che i pipernieri, durante la lavorazione con scalpello e martello (a quel tempo non esistevano i moderni mezzi di protezione), temevano che le schegge, schizzando dalla pietra, potessero colpire gli occhi danneggiandoli. Così, per tutelare la propria vista si affidarono alla protezione di Santa Lucia, rendendo la Chiesa di Santa Luciella il proprio luogo di culto e associandosi dell’Arciconfraternita dell’Immacolata Concezione a cui era affidata la madonnina sull’Altare maggiore della Chiesa (la Chiesa era diventata la loro sede nel 1748). Questa Arciconfraternita di laici e religiosi curava i bisogni spirituali della Corporazione dei Pipernieri, occupandosi di celebrarne i matrimoni, i battesimi e i funerali. Sotto la chiesa vi è, infatti, il cimitero in cui venivano seppelliti i membri sia della Confraternita e della Corporazione.

Le veste utilizzata durante i riti religiosi

All’interno della chiesa, nella navata centrale, si trovano due manichini con degli abiti un pò inquietanti. Si tratta delle vesti che i membri della Confraternita e della Corporazione indossavano quando si celebravano le cerimonie religiose: tutti dovevano indossavano lo stesso abito (in foto) con il cappuccio che rappresentava la fede, la penitenza, ma soprattutto l’uguaglianza tra i membri. Il cappuccio, infatti, mascherava simbolicamente le differenze socio-economico tra i partecipanti al rito religioso.

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L’Altare maggiore

I ragazzi dell'Associazione raccontano che sono riusciti a ricostruire quella che è la parte anteriore dell’Altare grazie alla donazione di una importante famiglia di restauratori napoletani. L’Altare era stato completamente spoliato nel 40ennio di chiusura. "Perché - spiegano i ragazzi - oltre a essere diventata una discarica abusiva, la Chiesa era anche preda di razzie continue da parte dei ladri. Ma, nonstante le condizioni in cui l'abbiamo trovata, smembrata in più pezzi e sotto cumuli di macerie e spazzatura, siamo riusciti a ricostruire l’Immacolata Concezione, abbiamo riassemblato la Madonnina e posta dove originariamente era, sull’Altare maggiore”.

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L’Altare dedicato a Santa Lucia

L’Altare minore, sito anch’esso nella navata centrale, è dedicato a Santa Lucia. Circondato da numerosi ex voto, per miracoli ricevuti, doni o omaggi per chiedere alla Santa un miracolo, e da un quadro raffigurante la vista (gli occhi), era l'altare dove i pipernieri venivano a pregare.

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La Sacrestia

Dalla navata si accede alla sacrestia. Qui c’è quello che i ragazzi dell’Associazione chiamiamo “l’armadio del degrado”: in questo armadio sono raccolti alcuni degli oggetti ritrovati nella chiesa come bottiglie di birra e una lattina di coca cola risalente ai mondiali del 1990. Nella sacrestia risiedono anche altri beni della chiesa scampati ai furti come le campane originali settecentesche, “che – spiegano i ragazzi - verranno riposte nel campanile della Chiesa quando i lavori termineranno", le balaustre e una serie di mattonelle maiolicate.

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L’ipogeo di Santa Luciella

Dalla sacrestia si scende nell’ipogeo, dove si praticava il culto delle anime pezzentelle. Ma prima di raccontare in cosa consisteva il culto, vediamo quale funzione ricopriva l’ipogeo. Qui venivano sepolti i cadaveri secondo il rito della doppia sepoltura: i corpi venivano trasportati nel cimitero e affidati allo “schiattamuorto”, figura tipica napoletana che siginifica “bucamorto”, perché punzecchiava il cadavere affinchè i gas e i liquidi della decomposizione fuoriuscissero più facilmente, velocizzando così il processo di decomposizione. Dopodichè i corpi venivano adagiati su una delle 4 terre sante presenti nel cimitero, interrati, e dopo qualche mese estratti, i corpi venivano ripuliti e le ossa poste nell’ossario che si trova sotto il cimitero (un’area a cui si accede da una botola ancora non esplorata, al momento quindi non accessibile). L’unica parte che non veniva riposta nell’ossario erano i teschi che i napoletani chiamavano “capuzzelle”. Venivano chiamate così perché erano oggetto di un culto tipicamente napoletano: “il culto delle anime pezzentelle" (o anime del purgatorio). “Pezzentella” deriva dal termine latino “petere” che significa “chiedere”: il culto si basa, infatti, su una richiesta alle anime del purgatorio. Sulle cornici dell'ipogeo sono ben visibili crani che risalgono al periodo che va dal 1600 al 1800, nel 1804 poi Napoleone Bonaparte, con l'Editto di Saint Cloud, stabilì che le sepolture dovevano essere effettuate tutte al di fuori delle mura cittadine. Da quel momento non furono, quindi, può portati cadaveri nella Chiesa di Santa Luciella e in nessun altro luogo di sepoltura in città.

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Il culto delle anime pezzentelle

Il famoso culto napoletano delle anime pezzentelle è nato nel 1656, quando a Napoli arrivò l’epidemia di peste che devastò la città. Durante l’epidemia, chi moriva a causa della peste veniva riposto in fosse comuni, non poteva essere seppellito in luoghi di preghiera e memoria. Si perdeva così l’identità dei cadaveri. Per questo motivo, nacque una sorta di “pietas” da parte delle donne napoletane che iniziarono ad adottare i crani dei defunti anonimi. Cosa significava adottare un teschio? Le donne scendevano all’interno di cimiteri come quello della Chiesa di Santa Luciella e adottavano una capuzzella, la ripulivano, la rinfrescavano con dell’acqua per dare refrigerio all’anima penitente che si credeva bruciasse nel fuoco della redenzione del Purgatorio. Ma perché proprio la testa? Perché si riteneva che la testa fosse la parte più nobile dello scheletro e, quindi, associata al concetto di anima. Attraverso le cure di queste donne, l’anima poteva risalire più facilmente dal Purgatorio al Paradiso. In cambio di queste cure e preghiere le donne chiedevano a queste anime del Purgatorio l’avversarsi di grazie e miracoli. Quando questi si realizzavano, le donne scendevano di nuovo all’interno del cimitero e portavano in dono degli ex voto per i miracoli o grazie ricevute: alcuni di questi sono ancora visibili oggi sulle pareti dell’Ipogeo, molti altri sono andati perduti. Agli inizi del 1900 poi, il culto inziò ad essere visto con sospetto da parte della Chiesa cattolica perché ai limiti del paganesimo: secondo la Chiesa non era possibile intercedere con Dio attraverso i morti, ma solo attraverso i Santi. Ma nonostante il distacco della Chiesa dal culto, questo continuò ad essere praticato dalle donne napoletane fino agli anni 70/80.

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Il teschio con le orecchie

Tra i teschi presenti nell'Ipogeo c’è n’è uno diverso dagli altri: il teschio con le orecchie. Avendo questa caratteristica, le donne partenopee credevano che fosse speciale, un ascoltatore migliore degli altri, e tutte rivolgevano a lui le preghiere. Il teschio è stato recentemente analizzato da un gruppo di paleopatologi: secondo i ricercatori queste “orecchie” non sono cartilagini mummificate, ma distaccamenti dalle pareti laterali del cranio, un fenomeno che avviene frequentemente dopo la morte. Le ossa laterali tendono, infatti, a decomporsi nel giro di qualche decennio, ma nel caso del teschio con le orecchie questo non è accaduto, il processo di decomposizione si è arrestato: sono, infatti, più di 300 anni (il cranio risale 1600) che il teschio presenta sempre la stessa conformazione.

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L’affresco settecentesco

Nell’ipogeo si trova anche un affresco settecentesco restaurato che rappresenta il Compianto sul Cristo morto. Al di sopra, come raccontano i ragazzi dell’Associazione, il restauratore aveva trovato un altro affresco sovrapposto, andato perduto, risalente agli inizi 1900 che rappresentava l’iconografia classica delle anime del purgatorio (secondo la Chiesa cattolica): le anime sono nella grotta, nel fuoco della redenzione, dove stanno scontando le loro pene, nell’attesa del perdono dei loro peccati. A occuparsi di queste anime erano i viventi attraverso le loro preghiere.

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