Napoli e il mito di Maradona, Niola: “I suoi gol, come i miracoli di San Gennaro, ricostruivano l’identità della città”
“Il calciatore argentino è diventato un mito non solo per quello che ha fatto in campo, ma anche per quello che ha fatto fuori dal terreno di gioco”. L’antropologo napoletano ci accompagna in un viaggio alle origini della leggenda di Maradona
Il suo personal trainer disse “C’è un Diego e un Maradona, e il primo non ha niente a che fare con l’altro”. Uno è il fenomeno del pallone, il ragazzino venuto dalla fine del mondo che ha sancito con il suo talento il riscatto del Napoli, di Napoli e degli ultimi; l’altro, invece, è semplicemente l’uomo, fatto di errori, debolezze e contraddizioni. Maradona non è stato solo un calciatore, è stato anche un calciatore. Le sue gesta, in campo e fuori dal campo, hanno scritto la storia del Napoli e cambiato per sempre le sorti di una città che in lui ha ritrovato l’orgoglio e la speranza. Tra la città partenopea e Maradona è stato amore a prima vista, una passione esplosa il 5 luglio del 1984 e destinata a durare per l’eternità. La sua scomparsa, il 25 novembre scorso, ha lasciato un vuoto incolmabile nel cuore dei napoletani, ma Diego è un mito, un dio, un santo protettore alla stregua di San Gennaro, e in quanto tale continuerà a vivere per sempre nei vicoli e nella memoria di questa città.
Il rapporto tra Napoli e Maradona, tra il mito e lo sport, tra la dimensione religiosa e quella sportiva, sono stati oggetto di un'interessante lezione del Prof. Marino Niola, antropologo, giornalista e divulgatore scientifico, nonché docente di Antropologia Culturale e di Antropologia dei Simboli presso l’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa, nell’ambito del Corso di Perfezionamento in Sport Management (1° edizione) del Dipartimento di Economia, Management, Istituzioni dell'Università degli Studi di Napoli Federico II, promosso dal Prof. Roberto Vona e dal Dott. Alessandro Formisano, Head of Operations, Marketing and Sales della SSC Napoli. Vi riportiamo alcuni stralci.
IL MITO NELLO SPORT
“I miti di oggi - spiega Niola - sono la reincarnazione dei miti del mondo antico. I grandi eroi del passato erano anche delle rockstar. Gli eroi di oggi durano poco, più che miti, li definirei infatti “mitoidi”. Ma nel tempo in cui durano illuminano il mondo, il firmamento, lo Starsystem sia sportivo che dello spettacolo, della musica, ecc. Lo sport è una delle più grandi e antiche fabbriche di miti. Noi crediamo che la fabbrica della mitologia moderna sia il cinema, questo è vero solo in parte: il cinema ha poco più di 100 anni, mentre lo sport ne ha molti di più. Le prime documentazioni sportive risalgono a mille anni prima di Cristo, ma sono sicuro che anche gli ominidi facessero gare, perché lo sport, inteso come competizione, il porsi dei limiti per superarli, appartiene filogeneticamente all’essere umano. Nel mondo antico, di cui siamo figli, la dimensione sportiva è strettamente legata a quella religiosa: non a caso gli sportivi diventavano dei semidei, oggetti di culto, proprio come è accaduto a Maradona. L’origine degli sport e dei giochi sportivi è legata a momenti di grande effervescenza religiosa o ai riti funebri, che, per i greci, erano il veicolo per l’immortalità: attraverso i morti costruivano la vita. Lo sport era connesso anche ai riti di fondazione delle città. Quando venne fondata Napoli dalla Sirena Partenope (VIII sec. a.c.) ad esempio, - siamo tra la storia e il mito - furono organizzate le corse con le fiaccole. I giochi sportivi erano strettamente legati alla nascita della polis: questo fa capire quanto fosse importante la dimensione mitico-religiosa nello sport. La stessa Olimpia, da cui derivano le Olimpiadi, in origine non era una città, lo è diventata molto dopo, anticamente era un luogo di culto con annesso stadio e foresteria, una sorta di santuario sportivo, un villaggio olimpico. E non a caso a questa dimensione era strettamente legata un’ampia produzione narrativa: poeti come Pindaro, Simonide e Bacchilide ci hanno lasciato numerose composizioni dedicate a eventi sportivi. Per celebrare le vittorie dei campioni veniva scritto un componimento particolare chiamato “epinicio” (da “epi”, intorno, e “nike”, vittoria) e dedicato ai vincitori. Noi pensiamo che gli antichi siano stati tutta testa e niente corpo, tutto pensiero e niente fisicità, ma è un’idea fuorviante indotta dallo studio scolastico. Pensiamo a Platone, era chiamato così per le sue spalle larghe, il nome si riferisce alla sua forza fisica: era un uomo sportivo, gareggiava, faceva la corsa, vinse molte medaglie sia nel pugilato che nella lotta nel corso dei giuochi delfici e istmici. E’, quindi, sempre esistito un rapporto simbiotico tra sport e mito che risale a tempi lontanissimi della nostra storia”.
MARADONA E IL CALCIO
“Il campione mitologico del nostro tempo, della modernità, è Diego Armando Maradona. El Pire de Oro è diventato un mito non solo per quello che ha fatto in campo, ma anche per quello che ha fatto fuori dal terreno di gioco. A renderlo “diverso” dai comuni mortali era l’attrito tra i suoi due corpi: in campo era non un atleta ma un Dio, e fuori dal campo era un uomo che commetteva, come gli altri, errori. Ed è proprio questa contrapposizione ad averlo reso uno dei personaggi più emblematici della seconda metà del 1900. Non è un caso che sin da quando era giovanissimo circolavano su di lui leggende: Franco Baresi diceva “Maradona era il più grande di tutti perché faceva con le arance quello che a noi calciatori sembrava impossibile fare col pallone”. Questo è un classico plot mitologico, qualcosa di analogo è stato detto anche negli anni ’60 di Pelè, un altro grande mito del calcio moderno, e negli anni '50 di “Zizino” che pareva fosse capace di percorrere quasi tutto il campo palleggiando di testa e tenendo a bada gli avversari: questa è mitologia sportiva. Di fatto le parole di Baresi proiettano la figura di Maradona in un giardino di arance, in cui ogni frutto si trasforma in un gol. Non è un caso che i gol di Maradona siano finiti nella leggenda, oltre a quelli segnati con il Napoli, tutti ricordiamo i due segnati contro l’Inghilterra nei Mondiali del ’96 in Messico: il primo è quello soprannominato “la mano de Dios”, il più furbo della storia, il secondo è “il gol del secolo”, il più bello e famoso della storia. Sessanta metri in dieci secondi di bellezza pura, in cui Diego ha scartato ben 5 avversari e 1 portiere, facendoli saltare come birilli: quando la palla finì in fondo alla rete, l’attaccante inglese Lineker si sentì morire ma non riuscì a non applaudire “perché solo un fenomeno poteva segnare un goal così impossibile”. Qui non si parla solo di tecnica o di tattica, ma di mitologia, di epinicio. Gli articoli che sono stati scritti su Maradona erano dei veri e propri epinici, come quelli che scriveva Pindaro sui vincitori di Olimpia. Maradona si è guadagnato in vita l'entrata nell’Olimpo del pallone, anche perché l’aura del bello e maledetto, del semidio, l’aveva impressa nel corpo, corpo che era una smentita clamorosa alle leggi della statica e della dinamica. La sua corsa sembrava un volo, Diego sembrava sempre sul punto di cadere, ma non cadeva mai. Era un miracolo di armonia pitagorica legata al gioco più bello del mondo. Dietro il suo scatto fulminante c’era una specie di aurea splendente, quella che Gianni Brera definì “Eupalla” (dal greco “eu”, bene, e “palla”, la dea della sfera di cuoio). Brera era un giornalista molto famoso a quel tempo e, nonostante fosse chiaratamente anti-meridionale, non riusciva a contenere la sua ammirazione per Maradona: quando scriveva articoli su di lui condiva sempre la notizia con un’impronta nordista un pò cattiva, lo definiva “il divino aborto” per come era fisicamente, per la sua statura e per il suo corpo sgraziato che, però, quando correva diventava il corpo della grazia. Ma anche da quella definizione (“divino aborto”) traboccava l’ammirazione, il riconoscimento di una natura fuori dal comune che si faceva continuamente beffa della forza di gravità”.
NAPOLI E Il MITO DI MARADONA
“Maradona non è diventato un mito, non è entrato trionfalmente nel pantano napoletano solo perché ha segnato gol incredibili (se avesse giocato in altre squadre sarebbe stato comunque un giocatore immenso, ma non sarebbe diventato “Maradona”). E’ l’incontro con Napoli ad aver trasformato per sempre sia la città che lui. A Napoli Maradona è ovunque, nelle strade, nei vicoli dei quartieri: se andate a prendere un caffè in piazzetta Nilo trovate un suo capello conservato in una teca come se fosse la reliquia di un santo, perché lui è stato eletto alla gloria degli altari stradali dove campeggia con murales e candele ex voto, una volta con fiumi di incenso: una beatificazione che ha accostato la figura di Maradona ai grandi nomi tutelari dell’immaginario napoletano. Questo è avvenuto perché Diego ha sancito la rivalsa degli ultimi. Maradona era figlio di un dio minore, ma ha dimostrato che anche una persona come lui poteva vincere, ce la poteva fare, che la sconfitta non era ineluttabile. Diego, attraverso il suo talento, ha dimostrato non solo che il Napoli poteva vincere ma ha anche dato orgoglio identitario e riscatto sociale al popolo napoletano. Il Napoli calcio si era rassegnato a giocare un campionato onorevole ma senza alcuna speranza di vincere, Maradona ha dimostrato, resistendo anche alle lusinghe della Juventus (Agnelli era disposto ad offrire un assegno in bianco a Ferlaino pur di averlo nella sua squadra) che anche il Napoli poteva raggiungere la vetta. Il legame tra Napoli e Maradona non ha niente a che vedere con l’amore e l’ammirazione che altre tifoserie nutrono per i loro fuoriclasse, quello tra Maradona e Napoli è un legame simbiotico, un amore simile a quello che c’è tra eros e pathos, tra erotismo ed eroismo, tra agiografia e liturgia. Maradona diventò l’amico degli ultimi, non a caso quando smise di giocare divenne grande amico di Fidel Castro e, spesso, sui suoi giubbini mostrava l’immagine di Cheguevara. Maradona era contro l’imperialismo nel calcio e fuori dal calcio: le sue polemiche con i vertici del mondo calcistico erano anche una questione politica. Il Napoli calcio non era solo una questione sportiva, ma una sintesi del rapporto con la città, rappresentava un patto di appartenenza civica, totemica, e questo riconoscimento si riflette perfettamente nell’immagine dei due scudetti vinti dal Napoli. Il 10 maggio del 1987 avvenne il primo miracolo, neanche San Gennaro era stato capace di farlo: Maradona salì sul ciuccio e il ciuccio divenne un puro sangue, il Napoli vinse così il suo primo scudetto. Quella sera lo stadio diventò città, e la città diventò stadio: la festa sportiva diventò teatro, ed improvvisamente riemerse tutto il passato, la straordinarietà della cultura napoletana riaffiorò con una festa, una sorta di memoria collettiva. Nella lingua del calcio la città di Napoli raccontava se stessa e si raccontava al mondo. Come in un carnevale della storia, riapparirono tutte le voci di Napoli, a partire dalla Sirena Partenope, fondatrice mitica della città, immortalata in statue di cartapesta come nel carnevale di Rio. E poi c’erano Totò ed Eduardo rappresentati su striscioni e impegnati in un confronto tra tradizione e modernità: Eduardo chiedeva a Totò “Te piace ‘o presepe?”, e Totò rispondeva “No Eduà, me piace ‘o scudetto!”. E, ancora, c’era San Gennaro in tutte le salse, su molte bandiere appariva con sullo sfondo il Vesuvio eruttante lava e a forma di scudetto e con in mano le ampolle col sangue miracoloso. Era in atto un processo di beatificazione popolare di Maradona rappresentato come un ibrido: una figura con il corpo di San Gennaro e la testa di Diego, si chiamava “Sangennardando”, un nome che di fatto consacrava l’entrata di Maradona nelle stanze più segrete di Napoli che in quei giorni battevano all’impazzata. Tra le immagini più belle di quei giorni ci sono le lunghissime tavolate imbandite per strada con il cibo che la comunità offriva ai passanti: questo gesto simbolico celebrava l’antico culto del legame sociale, dell’ospitalità, della convivialità, che evidentemente non era stato dimenticato, riaffiorava nella festa. Un sentimento del genere è riemerso anche nel corso della primavera scorsa a Napoli, nel primo lockdown: un vento di misericordia soffiava nei vicoli dei quartieri più popolari, accanto alle immagine di Madonne, si vedevano pendere dai balconi ceste di cibo con cartelli con su scritto “chi può dia, chi ha bisogno prenda”, era un vecchio slogan del famoso medico napoletano Giuseppe Moscati, icone della pietas e della solidarietà. Maradona risvegliò anche questo, gli anticorpi di una piet?s, di una compassione che abbracciava vivi e morti, perché allargava la partecipazione alla festa anche ai defunti. All’epicentro di questo gioco tra sacro e profano c’è sempre stata l’immagine di Maradona, oggetto di ammirazione e di culto. Basti pensare alla statua di Diego che veniva portata in trionfo come avveniva con le Madonne dell’Arco o del Carmine in processione, oppure, all’edicola votiva nel quartiere Sanità dove Maradona è rappresentato a grandezza naturale, con la tecnica della street art, con la palla al piede e l’abito da condottiero. I gol di Maradona erano paragonati al miracolo di San Gennaro, ricostruivano l’identità della città, la forza di quel legame di sangue: mettere insieme Maradona e San Gennaro era una cosa naturale, spontanea, lo fece anche De Crescenzo in “Così parlo Bellavista” per bocca di Luigino il poeta: “Sangennà non ti crucciare. Tu lo sai ti voglio bene! Ma 'na finta 'e Maradona Squaglia 'o sang rind 'e vvene!”. De Crescenzo è riuscito a far fare cortocircuito al miracolo, perché la vera liquefazione è quella che producevano i gol di Maradona. Le prodezze di Diego identificavano la città con un simbolo vincente, dimostravano che anche Napoli poteva vincere, che il dominio del Nord non era ineluttabile nel calcio, e, quindi, per la proprietà transitiva, neanche fuori dal terreno di gioco. E' così - conclude Niola - che Maradona è diventato un mito, una leggenda, uno dei patroni protettori della nostra città”.