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Cultura

Fasciano: "Non dobbiamo abituarci alla guerra"

L'intervista all’Avvocato lavorista Gianlivio Fasciano

Il lavoro, in tutte le sue forme, è uno dei protagonisti di questo conflitto che, con tutta probabilità, porterà conseguenze sul lavoro peggiori di quelle causate dalla pandemia. Attraversare e capire questa complessità non è facile, è un percorso importante per capire e per questo che abbiamo posto delle domande all’Avvocato lavorista Gianlivio Fasciano.

La guerra in Ucraina ha portato conseguenze che neanche potevamo immaginare. Milioni di persone si sono trovate senza lavoro. Che cosa significa per loro?
"Da lavorista ho provato a capire cosa possa significare perdere il lavoro da un giorno all’altro. Noi, come europei, siamo abituati a vivere questo dramma per motivi economici. Per una crisi, non perché un missile distrugga lo stabilimento, gli uffici. Questa è una forma di violenza ulteriore perché cambia irrimediabilmente le sorti delle persone, mortifica le loro aspettative. Mi spiego. Se una pasticcera di Kiev non ha più il suo lavoro, perde con questo anche la sua memoria. Spesso il lavoro porta con sé una manualità, un’esperienza anche di natura pratica che ha acquisito con fatica ed esercizio negli anni. Dunque questa è una perdita che vanifica anche la memoria di quel lavoro, smaterializza l’esercizio. Credo sia un aspetto tra i più atroci della guerra. Scappando da casa i rifugiati non possono portare niente ed una volta arrivati qui corrono il rischio di non poter più esercitare la loro manualità, il loro habitus".

Come potremmo aiutarli?
"I cittadini ucraini godono attualmente di protezione. Le norme ci sono e vengono applicate. Solo che queste norme, per la verità tutte le norme, soffrono dei fatti che accadono. Provo a spiegarmi. Le norme che tutelano i rifugiati vengono applicate. Ma la peculiarità di questi fatti, come la specialità delle condizioni di lavoratrici, visto che la maggior parte di loro sono donne, non sembra essere adeguatamente tutelata. Pensiamo sempre alla pasticcera, ad una sarta, oppure ad una professionista specializzata. L’abbandono del lavoro è espressione di una forma di violenza di Stato, che comprime, anzi mortifica, i loro desideri. Ed io credo che davanti a questo scempio noi europei dovremmo avere l’accortezza di saper trattare quel desiderio come un seme da poter coltivare".

Lei ha avuto modo di scrivere in tema di violenza di Stato
"Sì. È in uscita per Iod il mio nuovo romanzo che tratta proprio di questo argomento. È la storia di un ragazzo che voleva fare il pastore, ma che è stato costretto a fare il soldato. Volevo raccontare come l’esercizio del potere da parte dello Stato avvenga in forme estremamente violente. In alcuni momenti addirittura arbitrarie. Ovviamente non potevo immaginare che questa storia fosse così contemporanea e coincidente con la realtà. Come spesso accade la realtà sa sorprenderci".

In conclusione la storia si ripete
"Il rischio è che anche noi rischiamo di essere fuori posto. Non dobbiamo abituarci alla guerra, esattamente come non dovremmo farlo rispetto all’arbitrio. Le immagini, l’approssimazione, non devono costruire una spirale di normalità. Quello che succede non è normale e dobbiamo restare concentrati, essere attenti, nel mantenere il discernimento. Dobbiamo mantenere la capacità di distinguere e di non accettare questa guerra anche attraverso approssimazioni o soluzioni che sembrano essere a vantaggio dei rifugiati, ma che alla fine non rispettano a pieno i loro desideri".

Nel mondo ci sono altre 33 guerre, molte di queste completamente lasciate cadere nell’oblio. E con esse la distruzione di città con le vite di donne, uomini e bambini. I dimenticati del pianeta. Cosa ne pensa?
"Penso che la vicinanza comunicativa della guerra in Ucraina non ci autorizzi a tenere tra parentesi trentatré guerre, rispetto a quella che emotivamente ci colpisce di più. Sembra sia un effetto comunicativo, ma ogni guerra è inaccettabile. E penso anche che sono proprio i dimenticati, gli ultimi, a poter spiegare la storia".

Lei può definirsi un autore della grande tradizione del ‘900 della letteratura di impegno civile...
"La letteratura è ingiudicabile, libera e indisciplinata. Questa letteratura è necessaria perché serve racconta quello che non va bene, quello che non piace. La letteratura ha anche un valore anticipatorio. Se questa è letteratura impegnata, si. Vorrei esserlo".

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