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Venerdì, 19 Aprile 2024
Cultura

La leggenda napoletana di Colapesce e la setta de I Figli di Nettuno

La favola narra di un ragazzo napoletano, con incredibili abilità nuotatorie, che, in seguito alla maledizione della madre, finì per tramutarsi in un uomo-pesce con lunghe dita palmate e la pelle ricoperta di squame

Questo è il racconto di un ragazzo di nome Nicola che divenne famoso in tutta Napoli per le sue incredibili abilità nuotatorie e le sue immersioni subacquee. La leggenda narra che, in seguito alla maledizione della madre, finì per tramutarsi in un uomo-pesce con lunghe dita palmate e la pelle ricoperta di squame. Nicola, Cola per gli amici, era nato a Santa Lucia (uno dei borghi più antichi della città, poco distante dall’isolotto di Megaride su cui si erge il Castel dell’Ovo) ai tempi di Federico II di Svevia. Secondo la leggenda (conosciuta in tutto il Mediterraneo con numerose varianti), Nicola era solito trascorrere le sue giornate immergendosi nelle profondità marine. Quando riemergeva dagli abissi raccontava agli abitanti del borgo, che erano lì ad aspettarlo, delle creature misteriose, degli scheletri di antichi palazzi sprofondati e delle carcasse di navi colate a picco, che abitavano il mondo capovolto. A ogni nuova richiesta di immersione, il ragazzo si inabissava sempre di più. Nicola, trascorreva così tanto tempo al mare che la madre, indispettita e arrabbiata, un giorno gli lanciò una maledizione: “Potessi addiventà ‘nu pesce!”. Da quel momento, il ragazzo visse davvero come un pesce, capace di restare talmente a lungo sott’acqua da alimentare la leggenda che fosse divenuto una creatura marina. E, così, tutti iniziarono a chiamarlo Colapesce. Il ragazzo con le branchie e la pelle squamosa si faceva inghiottire da grossi pesci, e per uscirne ne lacerava il ventre servendosi di un lungo pugnale che portava sempre con sè. La sua fama si diffuse in tutto il regno arrivando all’orecchio del re Federico II, il quale lo volle incontrare per sapere com’era fatto il fondo del mare. Da quel momento iniziò una grande amicizia tra i due. Nicola, dopo ogni spedizione, raccontava al re non solo dei suoi affascinanti viaggi ma gli portava anche preziosi regali che recuperava dai fondali marini, come pietre preziose, coralli e gemme. Un giorno gli riferì di essersi spinto fino in Sicilia, dove aveva scoperto che l’isola era sorretta da tre immense colonne, una delle quali era spezzata.

Fin qui poterebbe sembrare una storia a lieto fine, ma in realtà Colapesce fece una brutta fine. Si racconta che il re Federico II lo sottopose a una dura prova mettendo in palio il matrimonio con la propria figlia: Nicola doveva recuperare alcuni gioielli che il re aveva gettato in mare nello stretto di Messina. Il ragazzo si tuffò, raggiunse i gioielli, ma scese così in profondità che si ritrovò bloccato in uno spazio senza acqua, e non fece più ritorno. Secondo un’altra versione della leggenda, invece, il re fece sparare una palla di cannone in mare e gli chiese di riportarla: Cola si lanciò in acqua e le nuotò dietro, senza fermarsi mai. Per un attimo giunse anche a toccarla ma all’improvviso, sollevata la testa in alto, vide sopra di lui le acque che lo sovrastavano come un marmo sepolcrale: quello spazio orribile, vuoto e silenzioso divenne la sua tomba.

La favola di Colapesce ha ispirato grandi letterati e filosofi, tra questi ricordiamo Raffaele Viviani che gli dedico' una poesia, e Benedetto Croce che narra del ragazzo-pesce e delle sue avventure subacquee nel libro "Storie e leggende napoletane". Il filosofo rimase così affascinato da questa figura che decise di scavare più a fondo nella leggenda. Dopo uno studio accurato trovò un collegamento con una confraternita segreta di sommozzatori iniziati al culto tardo pagano di Nettuno (il Signore dei mari) denominata “’E figli ‘e Nittuno” (ovvero “I figli di Nettuno”). Lo scopo di questa setta era sottrarre al mare le ricchezze e i tesori conservati nelle grotte marine napoletane. Ma per farlo era necessario rimanere il più a lungo possibile in apnea: un’impresa impossibile da compiere tenendo conto dei progressi ottenuti dalla scienza dell’epoca. Il loro segreto era legato ad alcune alghe marine che «rallentavano» magicamente il ritmo respiratorio: grazie all’alga ingerita, i sommozzatori potevano operare sott’acqua, avventurandosi negli abissi del Golfo, in piena tranquillità e per lungo tempo. Secondo un’altra versione della leggenda, invece, gli iniziati acquisivano tali poteri magici accoppiandosi con misteriosi esseri marini (probabilmente foche monache) o grazie all'aiuto della sirena Partenope. Agli adepti del culto venne dato il nome in codice di pesce-Nicola, e gli ultimi discendenti di questa «dinastia» - si vocifera - fossero ancora in circolazione durante l’ultima guerra mondiale. Ma se fosse vera questa ipotesi, cosa cercavano questi adepti a Napoli? Probabilmente gioielli, monili, monete, sculture greco-romane, insomma tutti quei tesori che il mare e le tempeste hanno sottratto alle antiche imbarcazioni che solcavano il Golfo di Napoli, per poi venderli a collezionisti e mecenati d’arte.

L’interrogativo è stato, recentemente, rilanciato anche da Mario Buonoconto nella sua indagine sulla “Napoli esoterica”: “Le notturne sparizioni di alcuni natanti, del porto di Napoli, in quel periodo, e il possesso da parte di alcuni collezionisti stranieri, presenti a Napoli nello sciagurato dopoguerra, di gioielli greco-romani fece rafforzare la memoria dei “pesci Nicolò”, perchè ad alcuni di loro fu sentito dire - e documentato in una corrispondenza nel tempo - con aria complice e segreta che bisognava rivolgersi in una precisa grotta marina del litorale, verso Miseno, all’uomo colapesce!”.

A confermare l’esistenza di questo personaggio mitico, in realtà, ci sarebbe anche un bassorilievo a Napoli che lo rappresenta. Durante gli scavi per la ricostruzione di Via Sedile di Porto, una delle stradine secondarie che si diramano da via Mezzocannone, venne alla luce, in epoca angoina, l’immagine di un uomo barbuto, con un coltello in mano, coperto da un velo di squame. La tradizione popolare ha sempre associato quella effige alla leggenda di Colapesce. In realtà il bassorilievo, oggi ricordato con una lapide sulla facciata di un palazzo di Via Mezzocannone, raffigura Orione (il figlio di Poseidone secondo la mitologia greca).

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