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Cronaca

“Non scendete a Napoli”, nel libro di Antonio Pascale una critica alla napoletanità

Secondo l'autore del volume edito da Rizzoli, il napoletano è fermo, interpreta un ruolo affibbiatogli dal luogo comune e vive con fierezza una situazione minoritaria. Che lo chiude all'innovazione

"Non scendete a Napoli”: si chiama così il libro di Antonio Pascale (edito da Rizzoli) che si propone come "guida alternativa al capoluogo partenopeo". L'assunto alla base è questo: una volta raggiunta la cima, il Vomero, Posillipo, il Castello, ma anche la metaforica "altezza" di via Caracciolo e del suo mare, il turista e il napoletano non scendono, perdendo così la vera città ed il senso del reale.

Realismo, realtà, comportano un discorso sincero, anche brutale. Di un'ironia non antinapoletana, ma che sottolinea la città come ostaggio di se stessa. Lo scrittore e giornalista analizza il punto di vista del turista. Questo si aspetta di trovare alcuni valori – veicolati dal luogo comune – introvabili altrove: la spontaneità, la simpatia. L'idea di Pascale è che il napoletano finisce per “recitare” questo ruolo, praticamente impostogli.

Una scossa al napoletano medio ha provato a darla Massimo Troisi – secondo l'autore – che avrebbe rimescolato con la sua comicità le carte dell'immaginario partenopeo. Un messaggio non recepito del tutto, però.

Pascale critica anche il ripresentarsi della questione meridionale. Il suo punto di vista è che il Sud, in essa, si deresponsabilizzi. E che nonostante abbia avuto varie occasioni per riavvicinarsi al resto d'Italia, abbia preferito continuare sulla sua strada proseguendo ad affidarsi politicamente ai suoi “baroni”. L'autore di “Non scendete a Napoli” critica di fatto il senso di “specialità” che pervade i napoletani fieri, a suo modo di vedere un modo per restare immobili, chiusi verso il mondo. Sentirsi più furbi e più bravi degli altri impedisce di incontrarli, è in sintesi il pensiero di Pascale.

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