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Giovedì, 18 Aprile 2024
Cronaca Scampia

La storia di Sead: dal campo rom di Scampia al lavoro in fabbrica al nord

È tra i protagonisti del film-documentario "Fuori Campo", storie di Rom nell'Italia di oggi. "Ho sempre Napoli nel cuore". Lo abbiamo intervistato

È stato presentato in anteprima a Roma il film-documentario "Fuori Campo", storie di Rom nell'Italia di oggi, girato dal regista Sergio Panariello, prodotto da Figli del Bronx con le associazioni OsservAzione e Compare/Mammut, realtà impegnate da anni sul tema dei diritti di rom e sinti in Italia.

Sono 200.000 i rom residenti in Italia e di questi, circa 40.000 vivono in condizioni di disagio abitativo in centri di accoglienza, container, campi rom o in edifici fatiscenti. La maggioranza però vive in uno stato di perfetta integrazione e armonia con le altre etnie.

“Fuori Campo” racconta alcune di queste storie, cercando di sfuggire ai soliti stereotipi sui Rom per raccontare la vita quotidiana di donne e uomini che abitano l'Italia, senza pregiudizi, con tutte le problematiche che si trovano ad affrontare in una società come la nostra avvolta dal disagio sociale e della crisi economica e lavorativa.

Tra queste storie emblematiche, raccontate nel documentario che sarà proiettato anche a Napoli, c'è quella del 32enne Sead Dobreva che da Pristina (oggi capitale del Kosovo), ancora adolescente, fu costretto a partire con la sua famiglia a causa della guerra civile nell'ex Jugoslavia, per cercare rifugio nel capoluogo partenopeo.

Sead, ci racconti com'era la vita tua e della tua famiglia a Pristina?

Avevamo una vita dignitosa, facevamo i commercianti di abbigliamento, avevamo anche una casa di proprietà. Poi però mio padre è morto a soli 29 anni nel 1987 e mia madre è rimasta sola con cinque figli da crescere, mandando sempre avanti l'attività di famiglia.

Quanto è scoppiata la guerra avete deciso di fuggire a Napoli.

Sì, abbiamo deciso di scappare dando via ogni nostro bene a un signore che aveva un furgone. Abbiamo viaggiato per tre giorni attraversando Ungheria e Austria per arrivare a Napoli. Ero contento, credevo che sarebbe stato tutto bello ma una volta arrivato a Scampia ho visto il campo Rom e mi sono messo a piangere.  Solo grazie a mia zia, che già abitava in quel campo in una roulotte, sono riuscito a distrarmi visto che mi ha dato una macchinina telecomandata.

Come è stato il risveglio nel campo Rom?

Al risveglio erano tutti spariti, eravamo rimasti solo io e i miei familiari, così siamo rimasti nella roulotte fino a sera quando abbiamo visto arrivare tutte le persone che vivevano nel campo, gonfie di monete. Le avevano ricevute per strada chiedendo la carità. Chiesi loro se non provassero vergogna per tali azioni, ma loro mi risposero che era l'unico modo per mangiare che avevano. Così il giorno seguente iniziai anche io a chiedere l'elemosina, al Vomero, in via Scarlatti e l'ho fatto per tutta la mia infanzia. Ciò che mi fa rabbia è che nessun operatore sociale si sia mai chiesto, ma questo bambino perchè sta per strada, perché non va a scuola?

I napoletani come ti trattavano e com'era la tua vita in quel periodo?

Devo solo dire grazie a tutti quei napoletani che mi hanno aiutato tramite le loro offerte. Ho potuto vivere onestamente. Mi svegliavo presto, prendevo l'autobus e chiedevo l'elemosina dalle 8 del mattino alle 5 del pomeriggio, poi tornavo a casa, cenavo e giocavo con i miei amici nel campo Rom a pallone e con la bici.  A 14 anni arrivarono al campo dei ragazzi che volevano insegnarci a leggere e a scrivere. Costruirono una baracca come scuola. Non capii subito tale gesto e anzi li disturbavo facendo dispetti, la vedevo come un'intrusione. Poi però andai e imparai a scrivere il mio nome e a disegnare.

Fino a quando due ragazze italiane furono investite da un rom e il campo in cui vivevate fu devastato.

Una di loro morì e la gente se la prese con il campo bruciandolo. Però quella stessa sera vennero al campo i ragazzi della scuola e altri giovani italiani a sostenerci. Con alcuni siamo diventati amici. Mi hanno anche accolto nelle loro case, presentandomi ai loro genitori. Mi trattavano come uno di loro e ciò per me era vitale e così iniziai a seguire corsi di scrittura, sia allo Ska che alla Cgil, partecipando anche a dibattiti sulla questione Rom e a 16 anni ho partecipato a un corso del comune di Napoli e della Gesco per diventare mediatore culturale, qualificandomi assieme ad altri 15 ragazzi di diverse etnie per aprire la cooperativa Casba mediatori culturali al centro Direzionale.

Poi il trasferimento in un nuovo campo e inizi un percorso come operatore sociale impegnato ad aiutare i giovani in difficoltà.

Con diverse remore accettammo di trasferirci nel nuovo campo attrezzato e iniziai a lavorare con l'amministrazione napoletana nell'inserimento scolastico dei bambini Rom. Collocammo 240 bambini nelle scuole di Scampia e Secondigliano e cominciai a fare anche altri progetti per includere i ragazzi detenuti nel carcere di Nisida con progetti finalizzati a spingere tali giovani a chiedere i domiciliari in cambio della frequenza scolastica. Ma non solo, aiutammo anche carcerati maggiorenni in progetti di lavoro.

Perchè ti spararono? A chi dava fastidio il tuo lavoro?

 Se nel campo ad esempio era presente una famiglia implicata nella malavita locale, questi se la prendevano direttamente con i Rom, chiedendo il pizzo. Li denunciammo, ma dopo due anni i malavitosi erano ancora a piede libero e ci spararono contro ferendo me, mio cugino e una bambina che non c'entrava nulla. Mi feci medicare e la sera stessa mi feci dimettere contro il parere dei medici. I miei familiari volevano abbandonare Napoli, ma io omai volevo restare perchè mi ero costruito una vita in città e non volevo rinunciarvi. Mi sentivo un Rom napoletano e non volevo andare via a causa di alcuni Rom, che volevano ucciderci perchè non apprezzavano il nostro lavoro ricco di legalità. Ci trasferimmo da Secondigliano al Vomero, dove dormivo nei giardinetti e poi incontrammo un assessore che disse di non poter fare nulla per noi nonostante ciò che avevamo fatto per i più bisognosi.

Quindi a questo punto decidesti di dire addio a Napoli.

Lasciai l'ufficio dove lavoravo al Centro Direzionale e ci trasferimmo a Milano, in un campo Rom, dove siamo stati 6 mesi. Ho avuto anche una figlia. Finalmente dopo molta attesa sono anche arrivati i soldi che ci doveva dare per il lavoro svolto il comune di Napoli e in società con 38 familiari comprammo una casa. Ho trovato anche lavoro in fabbrica. Faccio il delegato sindacale e volontariato e ho messo su felicemente famiglia.

Cosa ti rimane dell'esperienza napoletana invece?

Ho Napoli sempre nel cuore, la mia infanzia e li le mie radici sono lì. Mi manca suonare le tammurriate, fare un giro a Mergellina o a Spaccanapoli o a Capodimonte e mi manca il calore di tutti quegli affetti che mi ero conquistato.

Per quanto riguarda invece il documentario Fuori Campo, perchè hai deciso di partecipare e che messaggio intendi veicolare?

L'ho fatto per dire basta con i campi Rom, ci vogliono delle strategie diverse che includono le persone nella società attraverso una responsabilità reciproca e non di sussistenza. Il nostro film smentisce pienamente tutti quegli amministratori e quella gente comune che dice che i Rom non si vogliono integrare e non vogliono lavorare. Bisogna dare la possibilità a chi vuole seguire una strada differente da quella dei campi  di farlo.

-Cosa ti senti di dire a chi vive oggi nei campi Rom?

Se avete la possibilità economica di comprare una casa fatelo perché è bello non dipendere da nessuno, ma solamente dal proprio lavoro.

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