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Giovedì, 25 Aprile 2024

Emiliano Dario Esposito

Giornalista NapoliToday

Suicidio Diana Biondi: abbiamo un solo modo per parlarne

Per sensibilità, dobbiamo subito realizzare quanto siamo distanti dalla sofferenza che l'ha portata a togliersi la vita, e troncare sul nascere, oggi stesso, ogni eventuale discorso sulle circostanze della tragedia. L'unica riflessione possibile riguarda non Diana, ma la società in cui viviamo

Il tragico epilogo della scomparsa di Diana Biondi, la studentessa universitaria di 27 anni che ieri si è scoperto essersi tolta la vita, è l'ennesimo episodio che dovrebbe spingere tutti a una profonda e sobria riflessione.

Innanzitutto una premessa. Non conosciamo il cammino di sofferenza che ha portato Diana a prendere una decisione così estrema, è un percorso che ha affrontato da sola e del quale soltanto lei conosceva consapevolmente o inconsapevolmente ogni singolo, drammatico, passo avanti. È un'empatia impossibile, quella che possiamo avere per la condizione che l'ha portata al suicidio. Una distanza da realizzare subito così da troncare sul nascere, oggi, ogni eventuale discorso sulle circostanze della tragedia: evitiamo per favore di parlare di "sue debolezze", evitiamo i "ma la famiglia non si è accorta?", evitiamo le analisi del suo libretto universitario, della sua vita. È una questione di sensibilità, una sensibilità che mi rendo conto non siamo particolarmente abituati a vedere o mostrare recentemente, ma alla quale da operatore dell'informazione mi sento in dovere di invitare. Un modestissimo invito, appello, a chi sui giornali parlerà di questa ragazza, ma anche a chi – per strada, con gli amici, sui social network – sentirà l'urgenza di dare il proprio parere.

Abbiamo, a mio parere, gli elementi per fare una e soltanto una riflessione. Riguarda le modalità in cui si è configurata la nostra società negli ultimi anni, sia in generale che nello specifico in Italia.
Siamo precipitati in un disperato e disperante abisso di competizione, lavorismo, spinta al "successo", alla rinuncia del sé persona per la prevalenza di un sé lavoratore, un sé "realizzato". Viviamo il distopico mondo di Esther Crawford, la manager che dorme in sacco a pelo negli uffici di Twitter per poter subito riprendere a produrre e fatturare la mattina dopo, salvo poi venire licenziata nei mesi successivi in nome delle medesime divinità. Competere, fatturare, combattere.

Viviamo l'Italia in cui la nomenclatura dei ministeri assurge il merito a virtù, ma volgendo lo sguardo altrove quando si parla di uguaglianza. L'Italia dei "giovani sul divano che aspettano il reddito di cittadinanza e non vogliono fare la gavetta", dell'esaltazione dei giovanissimi che rinunciano alla loro età per laurearsi in anticipo sui tempi e in diretta social, delle bidelle pendolari tra Napoli e Milano, del "lavorare a meno per lavorare tutti", delle guerre tra poveri sui social e delle interviste ai manager sui giornali.

E ancora più nello specifico viviamo un deserto, quello del Sud Italia, di attrattive, possibilità, e quindi valori e speranze. Un contesto che frana sulle spalle dei più giovani generando in loro una forbice intollerabilmente dolorosa tra le aspettative che nutrono verso il futuro, e le aspettative che tutto ciò che li circonda nutre invece nei loro riguardi.

Soltanto uno sforzo collettivo per risalire la china di valori basilari quali solidarietà e tolleranza, soltanto la possibilità di poter guardare avanti – giovani e meno giovani – con più speranza e meno preoccupazione, può creare le condizioni utili a evitare tragedie come quella di cui parliamo oggi.
Una vicenda che sorprende e intristisce, ma i cui semi – suoi e di altri simili drammi – sono stati gettati in terra tempo fa. Semi che giorno dopo giorno la politica, i giornali, l'opinione pubblica, la scuola, e la terrificante vita di tutti i giorni continuano a innaffiare.

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