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A cura di Redazione NapoliToday

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Da magazziniere a Napoli ad account manager a Londra: la storia di Mario Palmieri

"Londra è una città fatta di aziende che sfruttano i lavoratori e di capi che ti bacchettano continuamente, ma una scalata è possibile”. L’intervista di NapoliToday al 26enne

Mario Palmieri, 26enne napoletano, è l’ennesimo giovane che ha scelto di trasferirsi oltre i confini nazionali per avere un futuro migliore. Nel 2015, dopo aver abbandonato la facoltà di Scienze Politiche della Federico II perché non riusciva a pagare le tasse universitarie, ha deciso di stabilirsi a Londra. Dopo un primo periodo difficile, in cui è stato costretto a cambiare diversi lavori, è divenuto account manager e copywriter di una webagency londinese.

Mario ha raccontato a NapoliToday quali sono le opportunità ma anche le difficoltà che si incontrano in una città come Londra, e quali sono le differenze tra l’Italia e il Regno Unito.

Mario, perché hai deciso di lasciare Napoli per andare a vivere a Londra?

“Ti ringrazio per avermi fatto questa domanda. Questo è un punto che tengo a chiarire ogni volta che ne ho l’occasione: io non sono scappato, come qualcuno potrebbe pensare. Ero arrivato ad un punto morto della mia vita e ho dovuto fare una scelta. Dopo aver conseguito la maturità, iniziai a lavorare in un piccolo supermarket di una catena per mantenermi agli studi. Il ritmo di lavoro era stressante: 12 ore al giorno per 6 giorni su 7 e, in più, 2 o 3 domeniche al mese in cui lavoravo mezza giornata. L’ ambiente di lavoro non era dei migliori: chi gestiva per conto dei proprietari non mancava di insultarmi quasi ogni giorno. A un certo punto mi resi conto che stavo pagando le tasse universitarie per fare due esami all’anno: era una follia continuare! Così dovetti scegliere tra lavoro e università: scelsi il primo! Cominciai a lavorare come copywriter freelance per una piccola agenzia per avere una seconda entrata. A un certo punto mi resi conto che il lavoro mi stava alienando, quindi decisi di partire (a quel tempo avevo 24 anni), e conoscendo soltanto l’inglese come lingua straniera, optai per la Gran Bretagna. Londra mi sembrava la città più adatta al percorso professionale che avevo in mente di intraprendere”.

Come è stato ambientarsi nella capitale del Regno Unito?

“Dal punto di vista umano non è stato difficile: sin da subito ho incontrato ragazzi che come me erano lì per provare a fare carriera o per studiare. Tra un turno di lavoro e l’altro non è stato difficile solidarizzare. Dal punto di vista economico, invece, è stato molto difficile: che Londra sia cara lo sappiamo tutti, ma questo non può giustificare affitti che portano via mezzo stipendio per una camera in una casa piena di blatte o ratti. All’inizio è stata molto dura, poi le cose sono andate meglio!”.

Per un giovane “expat” è così facile come dicono trovare lavoro a Londra?

“È facilissimo, almeno nel settore della ristorazione/hospitality. Per lavori più qualificati, invece, le porte sono chiuse, indipendentemente dal curriculum che hai. A mio avviso, nei colloqui di lavoro è solo questione di empatia, un’empatia che viene a mancare nel momento in cui l’intervistato ha un background diverso dal reclutatore. Mi sento quindi di sfatare un falso mito su Londra e sugli inglesi: la nazionalità conta eccome! Se non sei inglese, ti dicono che sei un candidato interessante, ma che non sei ciò che loro stanno cercando in quel momento. Certo, le eccezioni esistono, ma sono gocce d’acqua nel deserto”.

Quali sono i lavori che hai fatto a Londra prima di diventare account manager e copywriter di una web agency?

“Ho lavorato nel settore hospitality, in un paio di catene. Ho iniziato come addetto alle pulizie, poi ho avuto una breve parentesi in un’agenzia di marketing (in cui ero l’unico straniero in un team di oltre 50 persone) e poi di nuovo in un bar. Facevo turni molto meno massacranti di quelli che facevo in Italia. Da addetto alle pulizie ho fatto carriera e sono arrivato al livello di supervisor. Ma nonostante il salto di livello, la paga era di poco superiore alla quota minima nazionale, quindi andare avanti è stato difficile, e per molto tempo ho dovuto rinunciare ad uscite con gli amici e risparmiare sulla spesa”.

Che opportunità lavorative offre una città come Londra rispetto a Napoli?

“Ci sono moltissime opportunità lavorative, ma non tutte sono accessibili. A mio avviso, l’immagine di Londra come albero della cuccagna è un’immagine distorta della realtà: Londra è una città fatta di aziende che sfruttano i lavoratori e di capi che ti bacchettano se la pausa dura un minuto in più (mi è capitato di essere rimproverato per un minuto in più di pausa), ma attenzione: una scalata è possibile! Una volta entrati nel circuito giusto, le soddisfazioni e le promozioni arrivano, se si lavora bene. Le occasioni sono tante, basta coglierle quando arrivano. A Napoli, invece, così come in tutto il resto d’Italia, ci sono immobilismo e diffidenza nei confronti dei giovani che non hanno opportunità e riescono a fare carriera”.

È molto differente l’approccio al mondo del lavoro in queste due città?

“Sì, molto diverso! Per giustificare il peggioramento delle condizioni dei lavoratori nell’ultimo decennio, gli imprenditori italiani hanno insegnato alle nuove generazioni che il posto fisso non esiste più, che il lavoro è un concetto “liquido” e bisogna essere pronti a cambiare in qualsiasi momento perché tutti sono sostituibili. D’altro canto, però, si lamentano che i giovani sono fannulloni e non hanno il senso di appartenenza all’azienda o non hanno abbastanza spirito di sacrificio nemmeno per stare un’ora in più sul posto di lavoro. Ma come fa un giovane a sentirsi parte di un’azienda e quindi a sacrificarsi per un pò di straordinario se sa che il posto fisso non lo avrà mai, e che da un momento all’altro qualcun altro potrebbe avere il suo posto!? La verità è che la classe imprenditoriale voleva creare una generazione di lavoratori ricattabili, ma ha ottenuto solo dei mercenari che vedono il proprio datore di lavoro come un Bancomat da cui prelevare ogni fine mese. A Londra e nel Regno Unito, invece, ti insegnano a non rassegnarti, ti fanno capire che se ti impegni non solo ottieni il posto fisso, ma fai anche carriera”.

Cosa fa male all’Italia secondo te?

“Innanzitutto l’approccio che ho spiegato prima, ma anche il fatto che ognuno pensa al proprio orticello. Siamo un popolo sempre più arrabbiato coi politici (giustamente), ma siamo anche quelli che non vogliono mischiarsi agli immigrati per motivi di razza e di religione. Anche se alla fine viviamo le stesse condizioni. Anche se a governarci sono gli stessi politici. All’Italia fa male la criminalità organizzata. All’Italia fa male la cattiva gestione della cosa pubblica. All’Italia fa male la classe imprenditoriale che sfrutta i lavoratori. All’Italia fanno male tante cose, talmente tante che non si sa da che parte cominciare”.

Cosa consigli ai giovani che non riescono a trovare lavoro a Napoli e in Italia in generale?

“Innanzitutto di solidarizzare con chi è nella loro stessa situazione: se si fa rete, se si resta uniti e ci si organizza, qualcosa si ottiene (e in questo senso Napoli è un esempio positivo). In secondo luogo, consiglio di non svendersi solo per “fare curriculum”, ma imparare a distinguere le occasioni concrete dalle perdite di tempo, focalizzandosi solo sulle prime”.

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