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Professionisti ai tempi del Covid-19, Pasquale Napolitano: "Emergenza impatta su Paese fermo da 20 anni"

Insegna all'Accademia delle Belle Arti di Napoli e alla Federico II, è un videomaker, designer, è padre di un bimbo. In ciascuno di questi aspetti, rappresenta una categoria tra le più penalizzate dall'emergenza Covid-19

Pasquale Napolitano ha 38 anni. Insegna all'Accademia delle Belle Arti di Napoli e alla Federico II, è un videomaker, designer, è padre di un bimbo di un anno e mezzo. Rappresenta, in ciascuno di questi aspetti, una categoria tra le più penalizzate dall'emergenza Covid-19.

Libero professionista, creativo, docente. Partiamo da qui: in questi giorni di emergenza Covid-19 stai tenendo lezioni online?
"Sì, sto facendo molta didattica online con risultati sorprendentemente positivi, anche grazie alla grande voglia di imparare che i ragazzi stanno mettendo in campo in un momento così delicato. Certo, dover rinunciare all’empatia del crescere insieme in classe è davvero dura".

Per quanto invece riguarda l'altra tua principale attività, com'è la situazione?
"Tra l'impotenza e la frustrazione, si tratta di uno stop forzato, con conseguenze inevitabili sugli introiti. Sono abituato ad accettare il rischio, il classico 'se non lavoro non mangio' divenuto ormai un adagio in un Paese senza tutele per chi, anche in piccolo, fa impresa. Ma questo momento va ben oltre il rischio di impresa, è un meccanismo sociale senza precedenti che impone a milioni di persone, spesso la parte più intraprendente e creativa della forza lavoro, di dover rinunciare a lavorare per chissà quanto. Dopo 10 anni di lavoro, di confronto, di esperienza, è davvero shockante. E penso che tra le conseguenze di questo periodo non andranno sottovalutate le implicazioni psicologiche che questa inattività forzata avrà su milioni di persone".

Tra coloro che temono maggiormente lo stop dell'economia ci sono i possessori di partita Iva. Puoi spiegarci nel concreto a quali problemi stanno andando incontro i liberi professionisti come te?
"I rischi quotidiani di fare impresa in Italia, come la mancanza di tutele, la difficoltà di accesso al credito, l’operare in un mercato poco dinamico, l’evidente mancanza di difese nei confronti di chi non ti paga, o non ti paga nei tempi pattuiti. Si aggiunge il fatto di vedere tutti i propri progetti rinviati a data da destinarsi, senza poter neppure attrarre nuovo mercato".

Sei il papà di Ettore, che ha un anno e mezzo. In una situazione simile, c'è anche la necessità di fornirgli le attenzioni necessarie.
"Questo è il vero tarlo, la preoccupazione maggiore. Poter disporre del proprio tempo è stato utilissimo durante il primo anno di vita del nostro bimbo. Anche se molto faticoso, mi ha consentito di dedicargli il tempo giusto, di crescere insieme a lui. Una cosa impagabile, nonostante abbia in parte dovuto sacrificare la dimensione professionale. Questo attuale, il secondo anno, sarebbe dovuto essere un anno di ripartenza fisiologica, anche e soprattutto per garantire a tutti noi una vita serena. Invece si naviga a vista".

Come ti pare le istituzioni locali stiano affrontando questi giorni particolari, e nello specifico i problemi di cui abbiamo parlato fin qui?
"Premetto che non voglio fare polemiche in un momento così delicato per tutti, in cui è evidente la necessità di dover reinventare anche le politiche di sostegno. È doveroso però far notare quanto sia misera l’una tantum da 600 euro prevista come sostegno agli autonomi, che, a quanto si apprende, non basterà neanche per tutta la platea potenziale. Tantomeno è dato sapere se l’obolo verrà rinnovato per i mesi a venire. Credo che in questo periodo molti nodi delle politiche fatte negli ultimi 25 anni stiano venendo al pettine, uno di questi è proprio l’arretratezza del Paese nell’incentivare la libera impresa. È come se chi ha regolato questo settore avesse in mente un mercato del lavoro fermo agli anni 90, a prima di Internet, a prima del capitalismo cognitivo, al posto fisso a tutti i costi, al concorso a scuola".

Quali credi siano le prospettive?
"Vedo un Paese che ogni giorno decide di rinunciare alla propria forza più importante, la voglia di fare, e questo accadeva anche prima dell’emergenza Covid-19. E l’emorragia pluridecennale di giovani che aspirano a professioni ad alto valore aggiunto verso gli altri paesi d’Europa e del Mondo lo testimonia. Questa fase di stallo impatta su di un Paese vecchio e fermo da venti anni, in cui nonostante tutto però c’è un sacco di gente che ha voglia di fare, con una economia fatta di settori che sanno ancora esprimere tantissimo, penso alle filiere culturali, all’agroalimentare, al manifatturiero. Se questo trauma non sarà il volano per poter di nuovo attuare politiche a favore del lavoro, sia pubblico che privato, che mettano al centro il lavoro, lascerà solo macerie".

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