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L'eterna giovinezza del cervello degli Homo Sapiens: lo studio degli scienziati della Federico II

Sulla base del confronto di modelli cerebrali digitali 3D di scimmie, scimmie antropomorfe ed esseri umani, scienziati dell'università di Napoli, in collaborazione con altri ricercatori, hanno dimostrato che non sono solo le grandi dimensioni del nostro cervello a renderci umani

Cosa rende il cervello umano unico in tutto il regno animale? Questa domanda ha affascinato generazioni di paleoantropologi, biologi evoluzionisti, ma anche scrittori e filosofi per secoli. Sulla base del confronto di modelli cerebrali digitali 3D di scimmie, scimmie antropomorfe ed esseri umani (denominati collettivamente primati), scienziati dell'università Federico II di Napoli, in collaborazione con altri ricercatori italiani, australiani ed americani, hanno dimostrato che non sono solo le grandi dimensioni del nostro cervello a renderci umani. I nostri grandi cervelli sembrano, invece, aver evoluto una sorta di sindrome di Peter Pan, non sono mai diventati veramente adulti. Solo un'altra specie vicina a noi, i Neanderthal, mostra segni di questo stesso fenomeno.

Gli scienziati hanno scoperto che il cervello dei sapiens e dei Neanderthal si è evoluto molto più velocemente di quello di altri primati, mantenendo però una forte coordinazione nella crescita delle varie parti durante lo sviluppo. Un tratto, questo, unico fra le grandi scimmie antropomorfe. L'idea della sindrome di Peter Pan risale alle teorie di grandi studiosi del passato come Stephen Gould, Ashley Montagu e Lewis Wolpert, che sostennero per primi che il cervello umano si mantenga perennemente in uno stadio giovanile, immaturo, anche oltre la maturità sessuale o oltre. Sebbene affascinante e sempre ben presente nella letteratura antropologica, la sindrome di Peter Pan non era mai stata però dimostrata e per questo aspramente criticata.

In un recente studio pubblicato sulla prestigiosa rivista Nature Ecology & Evolution, il team di scienziati ha studiato modelli di covariazione (coordinazione del cambiamento di forma) durante la crescita tra i diversi lobi del cervello. Ogni lobo è notoriamente associato a diverse funzioni, ma gli autori volevano determinare se il cambiamento in un lobo fosse associato al cambiamento negli altri. Essi hanno scoperto che i cervelli delle scimmie antropomorfe (i nostri parenti più prossimi) e degli umani presentano alti livelli di coordinazione fra i lobi fino all'ultimo stadio di sviluppo, quello immediatamente precedente la maturità sessuale. Tuttavia, quando entra nella fase adulta, il cervello delle antropomorfe perde improvvisamente la coordinazione tra i lobi, probabilmente a favore della specializzazione funzionale delle diverse aree cerebrali in risposta alle esigenze della vita adulta. Gli esseri umani, tuttavia, mantengono l'alta coordinazione tipica dei cervelli delle antropomorfe giovanili per tutta la vita. E c'è di più. Gli autori hanno misurato il tasso di evoluzione nella coordinazione cerebrale negli individui adulti di un ampio campione di primati, che includeva 148 specie tra cui gli ominidi fossili, ed hanno scoperto che il ramo dell'albero dei primati che include i primi antenati degli umani, come le australopitecine ed il primo Homo, mostra un tasso dell'evoluzione decisamente più alto che negli altri primati, e che questo tasso continua ad aumentare man mano che ci si sposta dai nostri antenati antichi africani alla coppia Homo sapiens - Homo neanderthalensis.

"Questi risultati suggeriscono che la coordinazione fra le aree cerebrali è stata un fattore chiave nell'evoluzione umana, stimolata dalla selezione naturale. Sembra probabile che i nostri cugini, i Neanderthal, avessero un cervello potente e altamente coordinato come il nostro", ha commentato Gabriele Sansalone, primo autore dello studio.

Il dottor Antonio Profico ha aggiunto che "i cervelli dei Neanderthal e degli umani moderni sono molto simili in termini di volume, ma nei Neanderthal il cervello ha una forma diversa, molto più primitiva. Il fatto che Neanderthal e Homo sapiens mantengano alti livelli di integrazione cerebrale durante l'età adulta è sorprendente, perché fino ad ora pensavamo che l'emergere del comportamento dell'uomo moderno fosse legato alla presenza di un cervello globulare".

Stephen Wroe, altro autore dello studio osserva che "ulteriori indagini dovrebbero esaminare direttamente le connessioni fisiche tra le diverse regioni del cervello durante lo sviluppo e nella fase adulta. E' confortante notare come le prove esistenti, sebbene ancora limitate, suggeriscano che il cablaggio tra le diverse regioni del cervello è particolarmente ben sviluppato negli esseri umani, comparato agli altri primati".

La scoperta supporta la famosa, ma fin qui mai dimostrata, teoria del grande archeologo britannico Steven Mithen, secondo il quale gli esseri umani posseggono un grado unico di fluidità cognitiva, una singolare capacità di amalgamare diversi domini del pensiero. "La mente umana è particolarmente creativa, capace di mescolare pensieri astratti generati in diversi domini dell'intelligenza in nuove combinazioni che forniscono possibilità sempre nuove e spesso impreviste. I nostri risultati suggeriscono che l'elevata coordinazione tra le diverse aree cerebrali possa essere stato il meccanismo alla base della fluidità cognitiva di Mithen", ha commentato il professore Pasquale Raia, del dipartimento di Scienze della Terra, dell'ambiente e delle risorse dell'ateneo federiciano, autore della ricerca. "È per noi motivo di orgoglio poter dire che si è potuti arrivare a questa scoperta solo grazie alle tecniche di indagine elaborate dalle dottoresse Marina Melchionna e Silvia Castiglione, anch'esse autrici dello studio, durante lo svolgimento dei loro rispettivi percorsi di dottorato, svolti alla Federico II, sotto la mia guida. Scoprire quanto la parabola della 'perpetua giovinezza' ci abbia reso il Faust del regno animale, rappresenta al contempo una grande scoperta e apre un'intera linea di ricerca futura entusiasmante e promettente", conclude il professor Raia.

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