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Tatuaggi e camorra: così comunicano i criminali

Oggi è un fenomeno di massa, ma c'è stato un tempo in cui i tatuaggi era prerogativa dei criminali. Appartenenza al clan, odio verso le forze dell'ordine, messaggi in codice, semplice amore per la madre, la malavita si è sempre servita del tattoo dietro e fuori le sbarre. 

Un rapporto, quello tra tatuaggi e camorra, che hanno raccontato Giuseppe Di Vaio e Brian Anastasio, rispettivamente regista e ideatore del docufilm "Mamma vita mia". Un lavoro che analizza le origini del fenomeno, il suo sviluppo nei clan, fino all'uscita dalle logiche criminali, per poi diventare simbolo di tendenza. 

"La simbologia è infinita - spiega Di Vaio - il pesce significa che quella persona è muta e non racconterà ciò che vede; gli occhi sulle spalle mettono in guardia perché in quel carcere c'è qualcuno di cui non fidarsi". Mamma vita mia è quello più abusato perché, come racconta il regista "...molti volevano lasciare un segno della donna più importante: la madre". 

Alcuni criminali dichiaravano l'apparteneza a un gruppo specifico, altri no: "C'è una divisione su questo - afferma Anastasio, che di professione fa il tatuatore - perché mentre una parte degli intervistati ha manifestato orgoglio nel tatuarsi i simboli del clan, altri lo ritengono pericoloso e lo hanno evitato". 

Il boom della moda del tattoo ha cambiato anche il rapporto che c'era tra i vecchi tatuati e le "opere" dipinte sui loro corpi: "Prima queste persone di vergognavano - conclude Di Vaio - Oggi, invece, hanno ripreso a mostrare il loro corpo, perché il tatuaggio è sdoganato e non più soltanto una cosa da galeotti". 

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