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Nino D'Angelo: "Ho provato sulla mia pelle il razzismo e la depressione"

Il grande artista napoletano si è raccontato in una lunga intervista a Today.it

Nino D'Angelo si racconta nel corso di una lunga intervista rilasciata a Roberta Marchetti di Today.it. Il poliedrico artista napoletano è in giro per l'Italia con il suo tour, che si concluderà a dicembre con il concerto evento al Bataclan di Parigi.

Sei partito un anno fa dalla tua Napoli, hai proseguito in primavera, andrai avanti per tutta l'estate. Una festa infinita. Non hanno ancora telefonato i vicini per lamentarsi?

"La festa sarebbe finita, ma io vado avanti. Il titolo dell'album è 6.0, oggi si potrebbe chiamare 6.1 visto che ho fatto 61 anni, ma va bene così, ci ha portato bene. Continuiamo questa grande festa tra me e il mio pubblico, fatto anche di nuove generazioni. Vedo moltissimi giovani ai miei concerti, è una cosa stupenda. Vedere queste coppie di ragazzi che credono nei sentimeni e li cantano a squarciagola attraverso le mie canzoni, non c'è niente di più bello".

La tua è una carriera straordinaria fatta di musica, cinema e teatro. Partiamo dall'inizio. Nel 1976 il tuo primo 45 giri "A storia mia ('O scippo)", con cui raggiungi subito un grande successo regionale. Avresti mai immaginato, allora, di scavalcarli quei confini partenopei?

"Assolutamente no. Sognavo, ma per me sarebbe rimasto un sogno. A tutti piace andare oltre, ma non mi aspettavo certo tutto quello che è successo dopo. Con gli anni '80 invece c'è stata una vera e propria rivoluzione della musica napoletana e io sono stato un po' l'artefice di quel cambiamento. Ho iniziato con le sceneggiate, guardavo Mario Merola, che allora era il numero uno, e lo vedevo irraggiungibile. Il paragone con lui mi spaventava, per questo motivo mi inventai il pop napoletano, che poi diventò il neomelodico. Quella rivoluzione si sente ancora oggi". 

Qualche anno dopo, nel 1981, il debutto al cinema con "Celebrità", poi "Tradimento e Giuramento" e nell'82-83 il disco e poi il film "Nu jeans e na maglietta" che lancia il fenomeno Nino D'Angelo. E' stato più bello o più difficile gestire un successo del genere?

"Quella è stata la mia vera fortuna. Con 'Nu jeans e na maglietta' anche il cinema è diventato più pop e quel film mi dà ancora oggi la possibilità di essere uno dei cantanti napoletani più amati. Quella è stata la cosa inaspettata, esagerata. Da allora ho iniziato a fare tanto cinema, tanta musica, quello mi ha portato a fare il primo Sanremo. Ancora oggi se ripenso alla mia carriera mi viene la pelle d'oca. Ho avuto il piacere di fare tutto, sono un uomo felice. La cosa bella è che cantavo in dialetto. Magari, ogni tanto, c'era la 'sporcatura' italiana, ma ho sempre cantato in napoletano. Sono stato un artista fortunato, ma anche di talento. Il successo l'ho vissuto benissimo, fin dall'inizio, mi sembrava di sognare. Andavo a cantare in America, a Parigi, in tante altre città, ma cantare in napoletano mi faceva sentire sempre a casa e coi piedi per terra. Nella mia vita ho voluto essere il cantante napoletano e ci sono riuscito".

C'era scetticismo nei tuoi confronti quando sei arrivato a kamikaze nel panorama musicale italiano? Hai mai riscontrato astio da parte di qualche major o dei colleghi?

"Sì. Devo dire che un po' di razzismo l'ho provato sulla mia pelle. Io ero il terrone che andava al nord a cantare, il simbolo del sud. C'è un pezzo in cui ne parlo, si chiama 'Bravo ragazzo'. In molti si arrabbiavano per il mio successo. Senza soldi, senza appartenere al potere della musica, riuscivo a fare quello che non facevano altri che invece avevano molto altro alle spalle. Ero una piccola fabbrichetta che faceva il lavoro di una fabbricona. Sono sempre stato un artigiano della musica, piaccia o meno, ma è la verità. Sono andato avanti con i miei valori e l'importante era che la mia musica piacesse al mio pubblico. Sono nato dove c'è poco, ma in quel poco ho trovato tantissimo. Quando hai tutto quello che vuoi è difficile essere felice. Il poco mi ha fatto scrivere le canzoni e mi ha fatto sempre essere felice. I sentimenti erano l'unica ricchezza che poteva darmi la mia famiglia. La speranza per noi era la ricchezza più grande".

La morte dei tuoi genitori ha segnato in te un profondo cambiamento. Gli anni '90 sono stati anni difficili, eppure sei riuscito a trasformare quel dolore in emozioni diverse da raccontare rispetto a quelle che avevi raccontato fino ad allora. E' stato importante per te il dolore?

"Quando non sei più figlio diventi padre. Finché hai i genitori hai qualche responsabilità in meno, quando non ci sono più invece ti rendi conto di tante cose. La morte dei miei genitori mi ha cambiato. Mi è arrivato addosso un dolore così grande che non sono riuscito a sopportarlo. Ho conosciuto la depressione e in quegli anni mi sono fermato. Da questo momento buio, però, ne sono uscito ed è uscita fuori un'altra parte di me, la parte di me che voleva cambiare. Essere considerato solo il caschetto d'oro, quando poi nessuno mi ascoltava davvero, non mi piaceva più. Non volevo essere solo quello che faceva i numeri, ma volevo dire qualcosa ed essere ascoltato. Con quel dolore sono cambiato. Il dolore è importante e non solo per gli artisti, ma per tutti gli esseri umani. Fa parte della nostra vita. Se non conosci il dolore non conosci nemmeno la gioia. Ti fa crescere, devi trovare una forza più grande e la devi trovare da solo".

Hai mai pensato di mollare?

"In quel periodo sì. Quando soffri di depressione è normale che molli. Molli tutti i giorni, non ti importa di niente. E' difficile da spiegare, ma tutto aveva perso importanza. Pensavo solo che non avevo più i miei genitori che per me erano tutto, un punto di riferimento molto forte". 

Per Napoli sei un simbolo. Cosa rappresenta per te questa città?

"Napoli è la vita mia. Con i suoi problemi, con le sue contraddizioni, ma è la mia città e la amo. E' il posto dove vorrei rinascere se si rinascesse ancora. Essere napoletano mi rende orgoglioso, sono fiero della mie origini e dei miei concittadini. Napoli mi ha dato tutto, non potrei non amarla. Sì, ha dei problemi, però c'aggia fa? A me essere napoletano mi piace". 

Restiamo a Napoli e parliamo di un altro grande simbolo che purtroppo non c'è più. Pino Daniele. Quanto manca?

"Pino Daniele è stato uno dei più grandi della musica del '900. Quando non c'è più uno come Pino Daniele la musica è più povera. E' come se una mattina scendi e non c'è più il Maschio Angioino. E' stato un artista straordinario, e poi era una bella persona, simpatico. Era bello fare il napoletano con Pino".

Al concerto organizzato in suo onore allo Stadio San Paolo, lo scorso 8 giugno, però non c'eri...

"Non sono stato invitato. Mancavano anche Gigi D'Alessio, Edoardo Bennato e pochi altri. Si è detto che ho snobbato l'evento, ma la verità è un'altra. L'organizzazione non ci ha proprio contattato, è stata un po' leggera diciamo. Se c'eravamo noi napoletani si poteva cantare meglio in dialetto. Ho ascoltato cose che non si potevano ascoltare. Grandi nomi, artisti straordinari, ma alcuni con Pino non c'entravano nulla. Se avessero fatto cantare anche noi ci sarebbe stata un po' di napoletanità in più, per Pino". 

Torniamo al tour. L'ultima tappa, il 1 dicembre, sarà al Bataclan di Parigi, teatro del terribile attentato che nel 2015 costò la vita a 90 persone. Una tua scelta? 

"Sono stato chiamato per fare il concerto lì e ne sono rimasto molto felice. E' un onore suonare in quel posto. Non dobbiamo dimenticare in fretta le cose, la memoria deve essere sempre accesa e bisogna far conoscere o non far dimenticare le ingiustizie. Quella fu un'ingiustizia enorme, morire in quel modo".

Ultima domanda, forse la più difficile. Nino D'Angelo in una canzone?

"Senza giacca e cravatta. Io sono esattamente quello. Lì sono riuscito veramente a scrivere chi sono. Da dove vengo e chi sono. E' un'autobiografia. Oggi sono quello, negli anni '80 invece ero un jeans e una maglietta".

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