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Cultura Avvocata / Via Santa Chiara, 49/C

La Basilica di Santa Chiara, e il pianto senza sosta di Sancha

La leggenda del Complesso monumentale del Trecento che ospita anche un chiostro maiolicato e, nella chiesa, un affresco di Giotto

La leggenda che aleggia sul monastero di Santa Chiara, complesso monumentale trecentesco nel cuore del centro antico di Napoli, racconta che l’anima di Sancha di Maiorca - colei che, insieme al marito, il re Roberto D’Angiò, aveva voluto la costruzione del complesso - vaga ancora inquieta lungo il perimetro della basilica, dove è sepolta. Dal giorno della sua morte, nel luglio 1345, la donna in abito lungo prega passeggiando all’interno dell’enorme area monumentale, con gli occhi pieni di lacrime. Sempre la leggenda sostiene che nessuno abbia potuto riferire del suo volto: chiunque l’abbia disturbata mentre era intenta a pregare, sarebbe morto immediatamente. Alcuni hanno attribuito la figura vagante alla persona di Giovanna I d’Angiò, nipote di Roberto d’Angiò, di cui Sancha fu tutrice. Il Complesso Monumentale di S. Chiara, comprendente Chiesa, Monastero e Convento, fu innalzato dal 1310 al 1328: Roberto D’Angiò e sua moglie Sancha di Maiorca, devoti a San Francesco di Assisi e a Santa Chiara, vollero costruire una cittadella per accogliere le Clarisse e i Frati Minori, rispettivamente in un monastero e in un convento. Perciò, nell’area in cui oggi confluiscono via Benedetto Croce, piazza del Gesù Nuovo e via Santa Chiara, furono costruiti due edifici, vicini ma separati, e per rendere possibile questa nuova ‘formula’ fu necessaria una approvazione papale.

La chiesa, dall’evidente stile gotico, fu aperta al culto nel 1340: nella facciata a larga cuspide è incastonato l’antico rosone traforato, con il pronao dagli archi a sesto acuto. L’interno ha un’unica navata, sulla quale si affacciano dieci cappelle per lato. Dietro l’altare fu costruito il Coro delle clarisse, composto da tre navate: qui resta traccia di un affresco della Crocifissione, in cui si riconosce la mano di Giotto, chiamato a decorare le pareti della chiesa nel 1326. Nel presbiterio si trovano numerosi sepolcri– tra cui quello di Roberto d’Angiò – che furono realizzati da artisti come Tino di Camaino e i fratelli Bertini.

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