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Cultura

L'oro nero di Napoli: come nasce il culto del caffè partenopeo

La prima città ad apprezzare questa bevanda, originaria dell'Etiopia, fu Vienna. A Napoli si diffuse solo successivamente, grazie a Maria Carolina D’Asburgo, che dopo aver sposato Ferdinando IV di Borbone nel 1768, volle introdurre a corte l'usanza del caffè

Per apprezzare il suo gusto, il profumo intenso e l’aspetto cremoso va bevuto “rigorosamente” in una tazzina di ceramica bianca, spessa e senza decori interni. Stiamo parlando del rinomato caffè. Per i napoletani non è una semplice bevanda da consumare a prima mattina, dopo pranzo o al bar in compagnia. Il caffè a Napoli è un rituale, rappresenta un vero e proprio culto. E rifiutarlo, se offerto, equivale quasi a un’offesa. Ma com’è nata la tradizione del caffè a Napoli? E come è diventato così famoso in tutto il mondo? Partiamo dall’etimologia della parola: caffè deriva dall’arabo qahwa (eccitante), poi divenuto kahve in Turchia, terra dalla quale è arrivato poi in Europa. La pianta, originaria dell’Etiopia, si è diffusa prima in Arabia e poi in Turchia. Ma fu una città europea, Vienna, ad apprezzare questa bevanda dal colore nero tanto da dedicarle alla fine del XVII secolo i Kaffeehaus (i raffinati caffè viennesi). Nella città partenopea il caffè si diffuse grazie a Maria Carolina D’Asburgo, figlia di Maria Teresa, che sposò re Ferdinando IV di Borbone nel 1768. La giovanissima regina volle introdurre a corte usi e costumi viennesi esaltando l’uso del caffè. La bevanda, portata dai mercanti veneziani, era già conosciuta da tempo a Napoli, ma a causa del suo colore nero si pensava portasse male (la Chiesa la riteneva addirittura la bevanda del diavolo), per questo motivo non si diffuse. Si racconta che nel 1771, nella Reggia di Caserta, fu organizzato un ballo dove il caffè venne servito da quelli che, probabilmente, furono i primi baristi, vestiti con giubba e cappellino bianco: nacque il primo Caffè del Regno di Napoli. Insieme a questa bevanda dal colore nero, Maria Carolina portò nella città partenopea anche il kipferl (il cornetto): la fortunata accoppiata caffè-croissant le fu consigliata dalla sorella Maria Antonietta di Francia. Da questo momento fu Napoli ad eccellere nella preparazione del caffè grazie all’utilizzo di una particolare tostatura dei chicchi che conferiva alla bevanda un gusto ricco. Si dice che il caffè nostrano venga cotto “al punto giusto”. Tale tostatura particolare, dopo qualche giorno di riposo, esalta, infatti, gli oli essenziali e contribuisce ad una migliore estrazione degli aromi.

Successivamente arrivò, nelle case dei napoletani, la cocumella (la caffettiera napoletana inventata dal francese Morize nel 1819), che introdusse la bevanda anche nella cultura popolare. La cocumella alternava il metodo di preparazione per decozione alla turca al metodo di infusione alla veneziana, con un sistema a doppio filtro. Nel 1900, poi, si passò all’adozione della “macchina per espresso” che era molto difficile da maneggiare, ma di cui i napoletani divennero subito abili maestri: nacque l'espresso napoletano. Con il tempo i kaffeaus di Napoli divennero centri culturali di rilievo per gli intellettuali e raggiunsero la massima diffusionenel 1800, secolo che vide l’apertura di numerosissimi bar lungo via Toledo: nel 1860 aprì il Gran Caffè, il più bello ed importante di tutti, detto anche “Caffè delle Sette Porte”, nel piano terra del palazzo della Foresteria in piazza San Ferdinando.

Questa, appena raccontata, è solo una delle tante storie che spiegherebbero come sia arrivato il caffè a Napoli e perché sia diventano un culto. Un’altra vede, invece, come protagonista il musicologo Pietro Della Valle, romano di origine ma napoletano d’adozione. Secondo la leggenda, nel 1614, Della Valle abbandonò la Città Eterna per una delusione amorosa e si stabilì a Napoli. Da qui decise di partire alla volta della Terra Santa dove, innamoratosi di una donna, vi rimase per dodici anni. In questi anni rimase in contatto epistolare con alcuni suoi amici napoletani. In una delle sue lettere, il musicologo raccontava di una specialissima bevanda detta “kahve”: “un liquido profumato che veniva fuori da bricchi posti sul fuoco, e versato in piccole scodelle di porcellana, continuamente svuotate (e riempite) durante le conversazioni che seguivano il pasto”. Si racconta che, al suo ritorno, il giovane porto' il kahve (caffè) a Napoli. Secondo un'altra leggenda il caffè era già presente in Campania intorno al 1450, quando nella città partenopea regnavano gli Aragonesi. Alfonso D’Aragona era allora a capo di un grande impero formato dall’Aragona, la Catalogna, Valencia, Maiorca, la Sardegna e la Sicilia. Le sue navi solcavano il mar Mediterraneo, e da qui raggiungevano i porti del Levante riportando tutti i prodotti orientali all’epoca commerciabili, tra cui il caffè.

Che sia vera la prima, la seconda o a terza storia non c’è dato sapere. La cosa certa è che a Napoli si iniziò ad apprezzare l’amara bevanda solo agli inizi dell”800. Fu allora che i vicoli di Napoli si arricchirono delle grida dei caffettieri ambulanti che percorrevano la città in lungo e in largo muniti di un recipiente di caffè e uno di latte, e di un cesto con tazze e zucchero, per offrire una colazione veloce ai napoletani più affrettati. Oggi quei carrettini ambulanti non ci sono più, ma il caffè, come due secoli fa, rimane un rito "sacro" per tutti i napoletani. Eduardo De Filippo diceva: “Io, per esempio, a tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè, presa tranquillamente qua, fuori al balcone, dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con mani”.

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